Luglio 2015. Si avvicinano alcune le scadenze per il pagamento dei debiti dello Stato. Standard & Poor’s ha appena abbassato il rating del paese, ed il default è quasi certo. Il direttore del bilancio non pare particolarmente rassicurante: «La priorità del governo è quella di fornire servizi pubblici, e non di effettuare pagamenti per ripagare i creditori; conosciamo tutti la difficile situazione in cui ci troviamo in termini di flussi di denaro, e abbiamo deciso in che modo gestire questi flussi, considerando che la nostra priorità è quella di fornire servizi ai cittadini: salute, sicurezza e istruzione».

Non siamo in Grecia – dove le cose stavano andando un po’ diversamente – ma al di là dell’Atlantico. A Porto Rico.
Pochi in Europa hanno fatto attenzione alle vicende del piccolo paese caraibico. Non si tratta di uno Stato sovrano, ma di un territorio associato direttamente agli Usa, con un passato di colonialismo che pesa ancora, in cammino per diventare uno stato della Federazione. Ma non ancora giunto a tale passo. La sua posizione costituzionale è difficile da capire; non è uno Stato sovrano, e quindi non può accedere ai salvataggi del Fondo Monetario internazionale. Ma non essendo ancora pienamente incorporato negli Stati uniti non può nemmeno attivare le procedure di fallimento come hanno fatto enti locali come Detroit o stati come la California.

Essendo la sua economia in recessione da molti anni, la piccola isola (con 3,6 milioni di abitanti) ha affrontato un indebitamento crescente, fino a questa estate dove il capo del Governo è comparso in Tv il 29 luglio dichiarando che la rata dei primi di agosto non sarebbe stata pagata: «Il debito è impagabile». Lo stesso giorno le autorità hanno diffuso un rapporto scritto da tre economisti ex-Fmi le cui ricette non splendono proprio di ardore rivoluzionario già dai titoli dei paragrafi: riforme strutturali, riforme fiscali e debito pubblico, credibilità istituzionale. Solo che al secondo punto compare il termine ristrutturazione del debito. In altre parole, un taglio: i creditori non rivedranno tutti i loro soldi.

Fra essi c’è qualcuno particolarmente poco raccomandabile.

Circa il 20% (secondo Fortune addirittura il 50%) del debito è detenuto dai temuti Hedge Fund, più noti come fondi-avvoltoio: la punta di diamante della più rapace finanziarizzazione. Questi si sono mossi molto velocemente, minacciando azioni legali in caso di ristrutturazione, (assoldando uno dei più temibili uffici legali di Washington, quello che ha ottenuto la condanna dell’Argentina), adoperandosi per bloccare il ricorso a procedure di fallimento e pagando 3 economisti (pure loro del FMI…) per proporre un piano di pagamento. Questo, comicamente intitolato Per Porto Rico C’è un Via Migliore, propone un ulteriore indebitamento e delle misure di austerità schiaccianti: quando nell’isola il 56% dei bambini vive in povertà si stigmatiza l’eccesso di spesa per la scuola… Quando le autorità ne hanno già chiuse 100.

I fondi-avvoltoio si sono consorziati in due gruppi che perseguono strategie differenti anche se convergenti; regna una certa opacità, non si conosce per certo nemmeno la lista completa di essi. Ma si sa che diversi sono coinvolti nel debito greco e lo erano anche in quello argentino (dal quale uno di essi ha ricavato un guadagno del 1380% (sic!) sull’investimento iniziale. Inoltre i fondi-avvoltoio stanno usando il Porto Rico come paradisco fiscale: dopo aver speculato sulle difficoltà di bilancio e spingendo per la stretta austeritaria, ne sfruttano la bassa tassazione. Anche con Freddy (Krueger) il confronto appare impari.