«Prendiamo Georgia Rose di Tony Bennett (canta): ’Georgia Rose, sei la rosa più bella… ma c’è chi non lo pensa, perché la tua pelle è nera come la notte…’». Gregory Porter sembra non essere mai stanco di cantare: anche in un’intervista l’indomani mattina di una sua esibizione, come quella, in un Teatro Nazionale sold out già con largo anticipo, con cui la settimana scorsa ha siglato la prima edizione del festival JazzMi (chi non ha potuto esserci può rifarsi con il suo Live in Berlin, due cd più dvd, appena pubblicato da Universal). Se rispondendo alle domande nomina un brano, spesso non può fare a meno di evocarne la melodia e qualche verso, con una immediata immedesimazione. «A ben vedere Georgia Rose è una splendida canzone di protesta, congegnata in maniera molto intelligente: non una protesta diretta, ma che proprio per questo in un certo modo può avere un impatto ancora maggiore, perché le parole ti entrano dentro in maniera più sottile, le interiorizzi. Non è sempre necessario drammatizzare, non è sempre necessario essere cronachistici: nella mia musica a volte la protesta è presente in maniera non esplicita, diversamente da un brano come 1960 What?, che è documentaristico».

Per esempio?

Una canzone come Consequence of Love (canta): ’I will fight for the right to be your love, no matter what they say…’. Ora, queste parole suonano romantiche, ma dentro c’è della politica: perché chi è che ha la necessità di battersi per il diritto di essere l’amore di qualcun altro? Le vie dell’amore sono piene di ostacoli, può essere magari qualcuno che è molto distante da chi ama per condizioni economiche…

E nell’era di Trump?

Trump è ostile alla protesta in generale. Io naturalmente non sono d’accordo con lui. Ma in effetti bisogna considerare che ci sono molti modi diversi di protestare, e comunque che non c’è solo la protesta. Se dico delle cose in maniera più indiretta, non è per contrabbandare un messaggio, ma perché sono un artista, cerco la poesia in una canzone, non cerco di camuffare un contenuto, è semplicemente il mio stile, la mia maniera di esprimermi. I miei sono testi nello spirito del jazz, dove questo approccio c’è molto: Billie Holiday non è solo Strange Fruit, ma l’idea, il sentimento, nelle sue canzoni li senti. A volte nel jazz ti rendi conto di certi significati solo quando scopri chi ha scritto quella cosa, quale era la situazione che aveva intorno quando l’ha scritta…

Oltre che di Billie Holiday, ha ripreso brani di Max Roach e Abbey Lincoln, e di Oscar Brown Jr. Oscar Brown collaborò alla Freedom Now Suite di Roach: in queste scelte c’è anche un rapporto col loro tipo di impegno? 

Questa musica è molto importante per me, e le scelte che ho fatto dipendono dalla connessione che emozionalmente avverto con questi brani, dal fatto che ci sento delle cose che voglio dire, che vorrei entrare nel personaggio di queste canzoni: Sinatra era un genio in questo, nel prendere una canzone e nel farla diventare il suo personaggio. Brown è stato capace di tradurre la protesta, l’essere testimone di cose che sono avvenute, in poesia e in canzone. Credo che Brown e Lincoln rappresentino una influenza importante per il mio modo di scrivere.

Qual è il background di «1960 What»?

Quando nei ’90 ero al college e ci fu il riot di Los Angeles, vivevamo quel profondo divario nei rapporti razziali, quel momento di crisi come se stessimo rivedendo un documentario in bianco e nero sugli anni 60. Dico Sessanta Cosa? ma potrei dire 70, 80, 90… perché chiaramente abbiamo a che fare sempre con gli stessi problemi. Dico Sessanta Chi?, e nei Seassanta erano Martin Luther King, Medgar Evers, e tutti i nomi che conosciamo, ma ci sono anche tutti i nomi che non conosciamo. Il background della canzone è la storia di mia madre, quello che ha attraversato, i problemi che abbiamo avuto negli Usa, e sfortunatamente è anche la mia storia.

È pesante dover tornare sempre sulle stesse cose…

Adesso abbiamo una nuova amministrazione, che metterà la sporcizia sotto il tappeto, facendo finta che non esista. Invece la musica e l’arte devono rimeditare continuamente i problemi perché non ce ne dimentichiamo, perché se non troviamo delle nuove soluzioni alle solite questioni la storia continuerà a ripetersi.