L’ex generale Otto Pérez Molina, presidente del Guatemala, ha perso l’immunità parlamentare ed è comparso davanti ai giudici. Dopo aver resistito fino all’ultimo, ha dovuto infine dimettersi, alla vigilia delle elezioni presidenziali di domenica. Si è presentato in tribunale spontaneamente e così potrà evitare il carcere, disposto dal giudice Miquel Angelo Galvez. Molina, 64 anni, è accusato di associazione a delinquere e tangenti nell’ambito di una grossa frode doganale chiamata La Linea, che ha già portato in galera la vicepresidente Roxana Baldetti e un’altra quarantina di persone. Ogni anno, sono state sottratte alle casse dello stato circa 130 milioni di dollari.

Con una decisione storica che fa di Molina il primo presidente guatemalteco obbligato dai giudici a lasciare l’incarico, il Congresso aveva deciso di privarlo dell’immunità parlamentare: i 132 deputati avevano votato all’unanimità. Molina ha proclamato la sua innocenza, ma sono state prodotte diverse prove. Ad accusarlo è soprattutto un’intercettazione telefonica in cui avrebbe chiesto la sostituzione di un dirigente per far entrare un altro coinvolto nella truffa. L’interim è stato assunto dal vicepresidente Alejandro Maldonado, 79 anni, un conservatore che è stato presidente della Corte costituzionale e che ha assunto l’incarico dopo le dimissioni di Baldetti, il 14 maggio.

Nel 2012, Molina ha vinto le elezioni fidando sul suo soprannome, Manodura: promettendo il pugno di ferro contro la corruzione e la criminalità, che provoca circa 6.000 morti all’anno. Invece è finito nell’inchiesta della magistratura e della Commissione Onu contro l’impunità in Guatemala (Cigic). Mentre il Congresso discuteva il suo caso, fuori si è radunata una folla di manifestanti che gridava: «Molina vattene». Tra i manifestanti, rappresentanti delle organizzazioni indigene che da anni vorrebbero mandarlo a processo anche per i massacri commessi durante la sanguinosa guerra civile, durata 36 anni. Per aver firmato a nome dell’esercito gli accordi che hanno posto fine alla guerra, nel 1996, Molina preferiva però farsi chiamare «il Generale della pace».

I cartelli innalzati dalla sinistra guatemalteca e dai movimenti popolari chiedevano un cambio strutturale e l’annullamento delle elezioni. Domenica, oltre al presidente e al vicepresidente, i 7,5 milioni di aventi diritto eleggono 338 sindaci, 158 deputati al Congresso e 20 al Parlamento Centroamericano. I candidati alla presidenza sono 14, ma il favorito è sempre il campo della destra (di opposizione) con il Partito Lider di Manuel Baldizon. Si presenta anche Sandra Torres, la ex moglie dell’ex presidente Alvaro Colom, con cui il paese ha provato a muovere qualche passo in senso progressista. E si candida Zury Rios, figlia dell’ex dittatore Efrain Rios Montt, sotto processo per genocidio. Se nessuno ottiene il 50% dei voti, si svolgerà il secondo turno, il 25 ottobre.

In un paese saldamente in mano a vecchie e nuove oligarchie e a un pervicace intreccio di mafia e politica, alle forze di sinistra restano ben pochi spazi di agibilità istituzionale. Secondo dati della Fao e della Cepal, il Guatemala è il terzo paese dell’America latina con la maggior percentuale di popolazione che vive sotto la soglia di povertà (il 54,8%) e il primo quanto a malnutrizione cronica. Oltre 3 milioni di persone, soprattutto contadini indigeni, soffrono la fame, e sono malnutriti per quasi l’80%. Il Guatemala è il paese più diseguale dell’America latina, con un indice di Gini dello 0,628. Nelle mani del 2% di latifondisti si concentra oltre il 50% della terra, benché oltre la metà della popolazione sia costituita da contadini, che accedono solo al 3% della terra.

Nonostante l’inedita mobilitazione popolare di questi mesi, la profonda crisi economica e politica che attraversa il paese non può trovare soluzione in una competizione istituzionale già precostituita. Per questo, numerose organizzazioni popolari chiedono che il nuovo governo sia di transizione verso un processo costituente. Una richiesta che sale dal basso, dai movimenti in diverse parti di quell’America latina che non è stata toccata dal vento del socialismo del XXI secolo. Le proteste contro la corruzione che si sono svolte e si svolgono in Honduras, Costa Rica e Panama, mostrano l’inquietudine di ceti medi impoveriti, ma covano un disagio profondo che potrebbe anche portare ad altri sbocchi. Logico, quindi, rilevano molti analisti, che gli Stati uniti cerchino di anticipare e governare il percorso.

Nella conduzione della crisi, il ruolo degli Stati uniti è stato determinante, soprattutto nell’appoggiare la Cigic, che è un organismo delle Nazioni unite. Il vicepresidente Usa, Joe Biden ha peraltro espresso la ferma intenzione di raddopppiare l’attenzione sul Centroamerica e di appoggiare i «cambiamenti democratici»: anche per evitare – ha detto – che nuove ondate di minori disperati, senza lavoro e preda delle bande giovanili, si riversino alle frontiere con gli Usa. Con l’Alleanza per la Prosperità del Triangolo del Nord, che coinvolge Honduras, Salvador e Guatemala, gli Stati uniti cercano di creare condizioni di governabilità che possano controllare. La storia del Guatemala è figlia delle pesanti e sanguinose ingerenze Usa.
In questo senso, la caduta di Molina è solo una vittoria parziale e può anche indicare una scossa di assestamento all’interno dei poteri dominanti e di chi li guida da fuori. Molina aveva perso potere ed era diventato scomodo anche per aver voluto cavalcare il tema della legalizzazione delle droghe in uno dei principali snodi del narcotraffico.