Si chiamava Roberto Lima Choc e aveva 28 anni, l’ambientalista ucciso in Guatemala l’altroieri. Nelle elezioni generali del 6 settembre era stato eletto consigliere del municipio di Sayaxché (nel Petén, circa 500 km dalla capitale) per il partito socialdemocratico Unidad Nacional de la Esperanza: la formazione di Sandra Torres, che l’ha spuntata al fotofinish su Manuel Baldizon, il candidato delle destre, inizialmente dato favorito. Il secondo turno tra Torres e il comico Jimmy Morales, sostenuto dai circoli militari di estrema destra, si svolgerà il 25 ottobre.

Roberto Lima era maestro ed è stato fra i primi a denunciare l’inquinamento compiuto dall’impresa Repsa, che produce palma africana, nel fiume La Pasion, a giugno di quest’anno: un «disastro ambientale», lo ha definito l’Onu. Oltre ad aver avvelenato le acque e la salute delle persone, la Repsa ha provocato una gigantesca moria di pesci: colpendo così l’economia di sussistenza di circa 30.000 abitanti del Peten, che vivono di pesca artigianale.

Due sicari in moto hanno eliminato l’ecologista in pieno giorno, a due passi dal tribunale che, il giorno prima, aveva deciso la sospensione delle attività della grande impresa di olio di palma per sei mesi. Un periodo durante il quale l’inchiesta avrebbe dovuto determinare se i pesticidi usati nella produzione dell’olio di palma hanno provocato il disastro. L’avvocato Rafael Maldonado, del Centro di Attenzione legale, ambientale e sociale del Guatemala (Calas) ha denunciato anche il sequestro e la scomparsa di altri tre attivisti, Lorenzo Pérez, Manuel Herrera e Hermelindo Asij. L’Alto commissariato Onu per i diritti umani ha condannato l’omicidio e ha chiesto alle autorità di far piena luce.

In questi giorni è in corso anche l’udienza preliminare che deve decidere l’ammissibilità o meno delle accuse presentate dalla Fondazione contro il terrorismo nei confronti del leader contadino Daniel Pascual Hernandez, coordinatore generale del Comitato di unità contadina (Cuc). Il processo è stato avviato nel 2013, ma il 30 giugno di quest’anno la difesa di Hernandez ha presentato un’istanza di ricusazione contro la giudice, che aveva già anticipato alla stampa le sue convinzioni sulla sentenza. L’attivista, venuto in Italia per partecipare al I incontro internazionale con i movimenti popolari, organizzato in Vaticano da papa Bergoglio, aveva denunciato al manifesto le persecuzioni di cui sono vittime i contadini che si battono contro lo strapotere del latifondo e delle multinazionali. Oltre ad aver ricevuto costanti minacce, Hernandez è già scampato a un attentato e il rischio che possa finire come Lima è altissimo.

In Guatemala, il salario minimo non basta a sopravvivere, e per il 90% dei lavoratori rurali, che percepisce un compenso inferiore al minimo stabilito, la situazione è ancora peggiore. Oltre la metà della popolazione vive in una situazione di povertà cronica o sopravvive con meno di due dollari al giorno. Quotidianamente, almeno 100 persone, soprattutto giovani, tentano di raggiungere «il sogno americano». Fuggono dalla violenza e dalla miseria strutturale che interessa tutti i paesi centroamericani del cosiddetto Triangolo del Nord – Guatemala, Honduras e Salvador. Tre paesi che sono stati al centro della guerra sporca degli Usa contro il «pericolo rosso» del secolo scorso e che ne portano ancora i segni. In Guatemala è scomparso circa il 50% dei 108.000 registrati allora in tutta l’America latina. Contadini e indigeni hanno pagato il prezzo più alto: più dell’82% delle vittime degli oltre 600 massacri sono indigeni maya.

In questi mesi, vi sono state ripetute manifestazioni, a seguito di un grande scandalo per corruzione – la Linea – che ha portato in carcere l’ex presidente Otto Pérez Molina, generale ai tempi della guerra civile. Un fiammifero acceso sulla polveriera centroamericana che Washington sta ora tentando di contenere.