«Il dato sul Pil resta estremamente deludente», dice Paolo Guerrieri, senatore Pd, professore di economia alla Sapienza di Roma e al Collegio d’Europa di Bruges. Quanto alla possibilità che Bruxelles conceda maggiore flessibilità, l’economista ricorda che «non può andare a coprire una riduzione delle tasse». Soprattutto per l’abolizione della tassa sulla prima casa, che l’Europa, da tempo, «non considera prioritaria».

Professore, il paese «si è rimesso in moto» come afferma il presidente del consiglio?

Rimango sempre molto perplesso di fronte a queste reazioni. Bisognerebbe essere più prudenti nel commentare questi dati. Questi numeri sull’occupazione sono positivi, di certo anche grazie alla decontribuzione e forse al Jobs Act, anche se, in questo caso, è presto per dirlo. Il dato sul Pil resta estremamente deludente. Dimostra che c’è una ripresa modestissima e che non è cambiato nulla negli ultimi 15 anni: la crescita tendenziale è meno della metà della crescita europea.

Tutto merito del governo o ci sono stati fattori esogeni? Penso al Qe di Draghi, al prezzo del petrolio basso e all’euro debole.

Tutti gli economisti concordano col dire che questi sono fattori determinanti che stanno producendo quel po’ di ripresa che l’Europa sta sperimentando. Erano perlomeno due decenni che non si verificava un contesto così favorevole. Quello che preoccupa è che l’area dell’Euro – e quindi, l’Italia – ne stiano approfittando così poco. Cosa sta frenando? Ci saremmo aspettati un rimbalzo e una ripresa molto più forti. Non dimentichiamo che l’Italia, in Europa, è il paese che, dopo la Grecia, ha sofferto di più. Se continuiamo a bearci di questi risultati – ce l’hanno detto l’Fmi e l’Ocse – ci metteremo dai 10 ai 15 anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi.

Con l’impostazione della legge di stabilità si registrano immancabili i primi at attriti tra Matteo Renzi, e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Chi ha ragione?

Quello che ha detto il ministro Padoan mi sembra doveroso da parte di un ministro: non c’è riduzione delle imposte che incida in senso positivo, se non quella che poggia la sua credibilità su riduzioni certe e sostenibili della spesa. Il premier vuole tagliare le tasse, ma facendo deficit e contando su coperture che devono ancora essere concordate con l’Europa. È un’operazione credibile secondo lei?
Io non conosco le informazioni a cui può attingere il presidente del consiglio ma i dati che abbiamo ci dicono una cosa diversa. Ci sono stati già concessi dei margini di flessibilità. Dobbiamo fare una manovra restrittiva molto più blanda proprio grazie alle riforme fatte. Adesso non si capisce da dove potrebbero venire questi nuovi margini di cui parla Renzi. Una ipotetica maggiore flessibilità per gli investimenti non può andare a coprire una riduzione delle imposte.

E la tassa sulla casa? L’Europa definisce il taglio annunciato «non prioritario».

L’intervento sulla Tasi e sull’Imu non è una priorità economica. Questa domanda indebolirà la nostra richiesta di flessibilità. A Bruxelles non verrà affatto visto di buon occhio che una riduzione delle imposte parta proprio da quello che dovrebbe essere l’anello ultimo. La mia preoccupazione è che questa trattativa con l’Europa per avere qualche margine in più di flessibilità, possa essere molto difficile. Al contrario, a luglio la Commissione Ue ha già detto che il nostro deficit strutturale è aumentato dello 0,2%. Questo fa capire che il modo con cui verranno accolte queste richieste sarà tutt’altro che favorevole.

Cosa dovremmo chiedere, secondo lei?

Con una domanda interna che langue, come quella europea, noi ci dovremmo battere insieme ad altri paesi membri, per una politica espansionistica a livello europeo.

Il piano Juncker rilancerà la crescita?

Assolutamente no. Lo si sapeva dall’inizio che, sia per le cifre modestissime messe in campo, sia per le procedure scelte, non era un piano capace di rappresentare una spinta adeguata. Serve convincere l’Europa che il vero problema della bassa crescita è un mercato interno – il più ricco del mondo – che non rappresenta nessuno stimolo. Siamo troppo deboli, tuttavia, per convincere la Germania che questo sarebbe necessario, molto più di qualunque margine di flessibilità.

La preoccupa la brusca frenata del mercato mondiale?

Non è il mercato finanziario della Cina che preoccupa, ma è l’economia reale cinese che va male. È una locomotiva per tutta l’area asiatica emergente e non solo. Secondo il Def del governo, nel 2016 la crescita doveva venire da consumi e investimenti. È vero che i consumi interni si sono rimessi in moto, ma a un ritmo che è la metà di quello delle “riprese” precedenti. Gli investimenti poi, nell’ultimo mese, sono addirittura diminuiti. Rischiamo quindi di non raggiungere l’1,4% di crescita programmata per il prossimo anno.