Un omaggio a Guy Debord, vent’anni dopo il suicidio, prendendo in considerazione una parte importante e sempre troppo poco ricordata del suo lavoro, cioè il suo cinema, e la relazione tra questo e pensiero – il suo; il nostro, quello cioè di chi oggi, a vari livelli, tenta di occuparsene. In merito, le prospettive sono state e continuano a essere diverse.

 

Nel nostro caso si è scelto di presentare una traduzione – parziale – dall’inglese. Si tratta di un saggio dedicato al suo terzo film, il corto Critica della separazione (1961), uscito in un numero monografico del 2013 della rivista statunitense «Grey Room», il numero 52, e dedicato – appunto – al cinema di Debord. Il titolo del saggio è Missed Encounters: Critique de la séparation between the Riot and the “Young Girl”. L’autore – anche curatore del numero – è Jason E. Smith: filosofo; docente all’Art Center College of Design (Los Angeles); collaboratore di riviste importanti (fra cui: «Artforum» e «Critical Inquiry») e autore la cui ricerca – interdisciplinare, spesso tra estetica e pensiero politico post 1968 – si muove oggi, proprio, su Debord.

 

 

 

(Traduzione e cura di Gianluca Pulsoni)

 

 

Il film di Guy Debord Critica della separazione (1961) si presenta sia come “demistificazione del documentario” sia come “documentario sperimentale”. Le più ragionate analisi e riflessioni sul film lo hanno trattato di conseguenza come un film documentario che paradossalmente smonta e mostra le convenzioni e e i presupposti ideologici della forma documentaria. Tom McDonough, per esempio, ha offerto una analisi perspicace del modo in cui Critica della separazione attacca non semplicemente la forma generica del documentario ma ciò che al tempo era la sua più avanzata, contemporanea variante: il cinéma vérité e quello che è spesso preso come il suo più importante esempio, Chronique d’un été (1960) di Jean Rouch. E tuttavia se il film di Debord prende come suo obiettivo apparente il documentario contemporaneo, propone anche – per sé – altre generiche possibilità, proprio al di là della forma del documentario.

 

Si consideri per esempio la sequenza finale del film, che consiste in una serie di fotografie dei membri dell’Internazionale Situazionista accompagnata da un monologo della voce di Debord. L’ultima parte del monologo, che enuncia come il film non sarà in grado di terminare propriamente, è pronunciata su sequenze di immagini in campo/controcampo del regista accreditato del film, Debord, e del suo produttore de facto, Asger Jorn, come se i due fossero in dialogo tra loro.Mentre Debord dichiara che Critica della Separazione è«un film che s’interrompe, ma non si conclude», la visione del film è costretta nella lettura di una serie di dichiarazioni sottotitolate che assomigliano alla trascrizione di una conversazione privata, come si fosse in un sala di montaggio, tra Debord e Jorn. Uno dei sottotitoli, balenando sullo schermo come l’immagine di Jorn si rivolge verso di noi, dichiara che il film che abbiamo appena guardato – per cui non stiamo guardando il film stesso, ma la sua conseguenza, una nota a piè di pagina o un’appendice – riguarda la «vita privata» e cioè, quindi, «è del tutto normale che un film sulla “vita privata” sia fatto unicamente di private jokes». Quello che segue, dobbiamo presumere, è proprio un gioco del genere: «Si potrebbe fare una serie di documentari come questo, della durata di tre ore. Una sorta di “serial”/ “I misteri di New York” dell’alienazione.»

 

Les mystères de New York è il titolo francese di una delle serie cinematografiche più famose dell’epoca del muto, The Exploits of Elaine (1914), con Pearl White come l’eroina che senza sosta si mette sulle tracce di un misterioso cattivo che ha ucciso suo padre e che è conosciuto con l’affascinante soprannome di “The Clutching Hand” (dato il contesto, forse traducibile con “mano del destino”, n. d. t.). Come Critica della separazione, la serie era molto più breve dei lungometraggi con i quali era spesso mostrata, ed era strutturata in una forma a episodi che potevano essere proiettati consecutivamente di settimana in settimana, con ogni finale – o, piuttosto, non finale – in suspense (il “cliffhanger”). Il titolo proposto potrebbe essere un “private joke” che allude (anche se mediato riflessivamente) al gusto equivoco proprio di Debord per il genere di fiction e di produzione culturale più pulp, come evidenziato dal suo libro del 1958 in collaborazione con Jorn, Mémoires, messo insieme quasi interamente da frammenti uniti a mo’ di collage di romanzi di fantascienza, fumetti, foto-romanzi e i romanzi polizieschi della Série Noire. Il riferimento alla forma minore e obsoleta della serie cinematografica dell’epoca del muto suggerisce, anche, un ritorno a una forma storica che, una volta riattivata, potrebbe essere capace di demistificare il documentario contemporaneo. Ed equivale a un preveggente anche se non intenzionale segno a un futuro vicino in cui la forma seriale verrà a essere identificata non con il film ma con il medium o apparato sempre più rivale, la televisione. Niente, comunque, ci vieta di considerare letteralmente il joke, e concepire la serie di brevi documentari che Debord ha cominciato nel 1959 – Critica della separazione sarebbe il secondo episodio della serie dei «Misteri di New York” dell’alienazione», dopo Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps – non semplicemente come documentari, ma anche come crime stories o misteri. Con una importante specifica: che il crimine in questione può, in questo caso, non essere più localizzato nel tempo narrativo o attribuito a un soggetto individuale. Il crimine in questione non è questo o quell’omicidio. Non è un “torto particolare”, ma ciò che il primo Marx chiama – in un passaggio usato altrove da Debord – il «torto assoluto» dell’alienazione. O della separazione.

 

Ma questo non è tutto. Infatti, se Critica della separazione è immediatamente riconoscibile come un documentario sulla «vita privata» e una crime story senza soluzione, si presenta anche come una storia d’amore stereotipata, con una misteriosa giovane eroina che, forse, riecheggia da lontano la “Elaine” de The Exploits, ma assomiglia più strettamente alla Nadja di Breton. Come con tutti gli altri film di Debord, una gran parte di Critica della separazione è composta di immagini rubate, prestate o “detournate”, o di frammenti di film da altre fonti: cinegiornali, pubblicità, fotografie dal mondo della carta stampata fra le altre cose. Ma a differenza di quei film, e in particolare dei meglio conosciuti fra questi – la versione filmica del 1973 de La società dello spettacolo e In girum imus nocte et consumimur igni (1978) – Il film di Debord del 1961 non usa alcun filmato dalla storia del cinema. Al contrario, Debord “copre” il materiale filmato di cui si è appropriato – giovani donne in bikini, rivolte congolesi, il bombardamento di aerei da guerra americani – con una narrazione apparentemente fiction, girata in 35 mm dal direttore della fotografia André Mrulgaski, con un Debord – o un “personaggio” da lui interpretato – che pedina una jeune fille attraverso le strade di Parigi. Talvolta lei scivola via totalmente, come nella sequenza iniziale “trailer” del film, dove è brevemente intravista dalla camera montata su un auto in movimento. Talvolta è trattenuta dalla camera che fronteggia, muta, con la sua voce privata di suono nel momento in cui apre bocca (come nel cinema muto), oppure dal monologo imposto di Debord, che si rivolge non a lei ma agli spettatori del film. Le convenzioni del film narrativo e di finzione ci obbligherebbero a separare il cineasta Debord sia nella voce di commento al film e sia come “personaggio” interpretato, un uomo quasi sulla trentina che, come detto, pedina una jeune fille che sembra essere non più di una diciassettenne. Questa separazione de rigueur è complicata dal fatto che noi intravediamo, ad un certo punto, la moglie effettiva di Debord, la sola donna membro fondatore dell’Internazionale Situazionista (Michèle Bernstein), che accompagna la jeune fille, come fosse lei stessa parte della storia, recitando il ruolo della protettrice, seduttrice o rivale. Bernstein ha scritto due romanzi durante il periodo in cui Debord ha realizzato questo film. Questi inglobano non testi specifici (come Debord in, diciamo, Mémoires) ma generi interi e le loro convenzioni. Sono storie centrate intorno al classico tema letterario stile XVIII secolo del triangolo amoroso, e se consideriamo questo, siamo costretti a considerare l’ambiguità del livello apparentemente di finzione del film: percepiamo che Critica della separazione registri e sia, allo stesso tempo, un pretesto – anziché una simulazione – per la seduzione effettiva da parte di Debord e forse della Bernstein della jeune fille, che concentra in sé così tanta energia e l’epicentro stesso del film.

 

Chi – o cosa – è questa jeune fille? In un certo senso, il vero mistero che il film insegue è proprio questa domanda. Lei parla (è sentita) una volta nel film, ma non dentro la “realtà” prodotta dalla struttura di finzione della storia d’amore. Al contrario, la sua voce è sentita proprio all’inizio del film, recitante ciò che potrebbe essere chiamata la sua epigrafe: un passaggio dal linguista André Martinet sulla “dissociazione” di linguaggio e realtà. La jeune fille, o ragazza minorenne e ribelle, è un riferimento tematico costante nei film di Debord, da Hurlements en favour de Sade fino al suo grande film finale, In girum. Ma nei suoi primi due film, Hurlements e Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps, la jeune fille (e l’adolescenza e la differenza sessuale, più in generale) non è solo un riferimento tematico. In questi due film, la jeune fille è per prima cosa, anzitutto, una voce che interagisce, dialetticamente, con altre voci. In Sur le passage, per esempio, la voce stessa di Debord, descritta nelle note tecniche per il film come «triste e sorda», non è la sola voce, ma è messa in scena in relazione con altre voci, una esplicitamente identificata come quella della jeune fille.Questa iniziale pluralità di voci necessariamente sottolinea la struttura di finzione o drammatica della stessa voce di Debord, negandole il privilegio di una sua centralità o status come fonte di affermazioni teoriche o analitiche. È piuttosto un tono fra gli altri, malinconico e rassegnato, innescato contro la voce stereotipata dell’ “annunciatore”dell’altra voce maschile e la punteggiatura della voce della ragazza. Mentre le due voci maschili occupano i poli convenzionali della neutralità oggettiva e del lirismo soggettivo, la posizione esatta della voce della ragazza in questoWechsel der Töne non è facilmente circoscritta. La jeune fille, qui, è spesso usata per incanalare testi che sono particolarmente discordanti con la sua voce e la sua età, ironizzandoli apparentemente. Per esempio, come fosse ventriloquio, tramite lei sentiamo la voce di Lenin parlare della “dittatura del proletariato” in un testo che, inoltre, denuncia ciò che Lenin chiama i disordini “infantili” del comunismo di sinistra: un orientamento politico con cui Debord e l’Internazionale Situazionista si sarebbero identificati, in modo particolare nel periodo immediatamente successivo al 1961.

 

Documentario, scherzo, serie, detective story, o “triangolo” romanzato: Critica della separazione cita e alle volte impiega tutti questi generi nella sua ricerca dei misteri dell’alienazione. E tuttavia, a differenza dei primi due film di Debord, qui il “soggetto dell’enunciazione” che organizza il film è non più frammentato attraverso una pluralità di voci, toni, generazioni e generi sessuali. Ora, l’autorità della voce è consolidata nel monologo di Debord, e il gioco della finzioni e dei generi sembra organizzato intorno questa voce e il suo correlativo generico, il documentario. La jeune fille che interrompeva e disorientava il dialogo tra uomini in Sur le passage non parla più, essendo finita dentro il film. Muta, le è qui assegnato il ruolo di un segnale che è venuto «da una vita più intensa».

 

 

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Fin dalle sue prime battute, Critica della separazione dichiara il suo tema: la perdita. La sequenza iniziale del film, per esempio, si conclude con la vignetta di un fumetto che raffigura una donna che parla di insuccesso e una jeep che si impantana nel fango di una palude, accompagnata dalla voce fuori campo di Debord che domanda «quale vero progetto è stato perduto?» La forma della domanda sottolinea non solo il fallimento o la sconfitta di un progetto, ma una incertezza circa la natura e l’esistenza di quello stesso progetto. Per i successivi quindici minuti, il film ritornerà ripetutamente su questo tema, dei progetti che hanno fallito e delle avventure che hanno perso la loro strada. In questo senso, Critica della separazione è davvero il “sequel” di Sur le passage, che anche riguarda il fallimento delle quelques personnes del titolo per realizzare i progetti che formularono nel 1952, quando per prima si formò l’Internazionale Lettrista. Critica della separazione parla in particolare di perdita e della sua relazione col tempo: “del “tempo vuoto” che si svolge senza incidente, dei “momenti perduti” e del “tempo sprecato” nel quale le opportunità che mai ritorneranno sono mancate, e più in generale del tempo che “scivola via” o che noi – Debord, il movimento rivoluzionario, la sua epoca come un tutto – abbiamo lasciato scivolare via. Il tempo era lì per essere preso, la voce fuori campo di Debord malinconicamente racconta, ma il tempo presente, il tempo dello spettacolo, è organizzato in un tale modo che ogni incontro reale, ogni vero inizio nella storia è mancato: «non si è inventato nulla»,«quando si è persa l’occasione?»

 

In uno dei passaggi lirici più sviluppati nella sceneggiatura – tante delle battute che Debord pronuncia sembrano come frammenti, cocci, frasi circondate da un contesto fantasma, mancante – troviamo questo tema della perdita collegato a una figura insistente nella scrittura dello stesso Debord, non la jeune fille ma più in generale il bambino, l’enfant: «Tutto ciò che riguarda la sfera della perdita, cioè quanto ho perduto di me stesso, il tempo passato; e la scomparsa, la fuga; e più generalmente il trascorrere delle cose, e anche nel senso sociale dominante, nel senso più volgare dell’impiego del tempo, ciò che si definisce il tempo perduto, s’incontra stranamente nell’antica espressione militare “da soldati perduti” (cioè mandati in avanscoperta, allo sbaraglio – les enfants perdus in francese, n. d. t.), incontra la sfera della scoperta, dell’esplorazione di un terreno sconosciuto; tutte le forme della ricerca, dell’avventura, dell’avanguardia. È a questo incrocio che ci siamo trovati, e perduti.»

 

Qualsiasi cosa uno faccia delle sue tesi fondamentali riguardo la vita, il lavoro e la politica di Debord, Vincent Kaufman ha avuto sicuramente ragione a organizzare l’intera traiettoria del lavoro di Debord intorno all’espressione e tema del “bambino perduto”. Il senso militare dell’espressione les enfants perdus si riferisce a un distaccamento di soldati mandati in avanscoperta, spesso dietro le linee nemiche e generalmente con una cognizione che la loro missione sarebbe stata fatale[…]. Quello che voglio sottolineare in questo particolare riferimento alesenfants perdus è semplicemente il modo in cui la nozione di incontro è paradossalmente coniugata con quella di perdita o fuga: i vaghi contorni della sfera della perdita sono qui presenti data l’immagine concreta dell’incrocio in cui “noi” ci siamo subito trovati e perduti. Questa figura generale di incrocio e di incontro mancato – di un tempo o di una età che in qualche modo “perde” se stessa – è ciò che il pedinamento del film e di Debord della giovane ragazza (prima intravista a un incrocio nella sequenza iniziale) sembra rendere emblematico.

 

Quale “vero” progetto, allora, è stato perduto?