«Guidiamo, guidiamo, guidiamo. Noi, abitanti dell’Aquila, passiamo il nostro tempo percorrendo spazi isolati. E guidiamo. Anche solo per raggiungere le macerie». Dalle new town del progetto C.a.s.e, voluto da Berlusconi, alla «vecchia» città ci sono almeno 14 chilometri. Abitare all’Aquila dopo il terremoto significa essere imbrigliati nel tempo. «Qui, il passato è più passato. Il presente è più presente, senza uno ieri e senza un domani» spiega Emiliano Dante, regista aquilano, autore di «Habitat – note personali» presentato ieri in anteprima al Torino Film Festival, all’interno del concorso Italiana.doc. Un film duro, forte, emotivo, vero, con un bianco e nero implacabile e un countdown angoscioso, che scandisce il passare dei minuti.
È un lavoro che ruota attorno al concetto di auto-rappresentazione, in quanto Emiliano Dante è uno dei protagonisti del documentario. Vive in una delle alienanti e fragilissime abitazioni del progetto C.a.s.e, scenografia berlusconiana per dissimulare la reale condizione dei terremotati. Parola tabù. Habitat è la storia, lunga cinque anni, di tre ex compagni di tenda rimasti all’Aquila. Alessio da squatter è divenuto agente immobiliare, vive con Gemma in una frazione completamente distrutta dal sisma. Paolo fa il pittore e sta per diventare padre in una situazione di precarietà assoluta.
Dante ritorna, così, ad affrontare la vita nel post-terremoto dopo Into The Blue (2009), realizzato nei mesi di tendopoli e presentato anni fa al Tff. Se nel primo documentario, nonostante le difficoltà, la speranza di un futuro diverso si faceva forza tra le macerie, in Habitat svanisce. Maggior «positività» sarebbe sicuramente piaciuta a produttori ed enti locali (politici compresi), ma avrebbe leso l’onestà del racconto. Inquadrature statiche, sguardi pensosi, inserti grafici minimal descrivono una città più cupa rispetto ai mesi successivi al 6 aprile 2009. «La mia unica speranza? È quella di sbagliarmi di grosso. Ovvero che non stiamo diventando marginali, che non viviamo un regresso culturale», dice il regista.
La ricostruzione dell’Aquila è un campo lunghissimo, affollato da gru con palazzi che nascono e muoiono, mentre i panni stesi cinque anni prima rimangono appesi ai fili. Gli aquilani derubati dal loro tessuto urbano, storico e culturale, vivono distanti e isolati tra loro. «Siamo frammenti». In una non-città, il centro commerciale – non-luogo per eccellenza, secondo l’antropologo Marc Augé – diventa la piazza principale. «Ci vado ogni giorno, non per comprare qualcosa, ma per vedere qualcuno. Per semplice solitudine». È ancora il regista che parla, dando forma alla depressione collettiva.
Negli anni si sono susseguiti scandali e processi, ma L’Aquila resta sempre la stessa, quella delle ore 3.32 di quel maledetto aprile. Gli appartamenti del progetto C.a.s.e si disintegrano in tre anni. Poi, la gente viene trasferita in altri. «Siamo quasi morti in anticipo. La vita è effimera quando si imbatte nel tempo. Il terremoto è secoli che passano in un attimo», sintetizza il padre di Emiliano, Umberto, storico. Per quale motivo si resta o si torna all’Aquila? «L’amore per la sofferenza?» si chiede Valentina. «I sensi di colpa?». O il semplice legame con la propria terra.
La marcia nel giorno dell’anniversario riunisce gli abitanti, solo per una sera. Finita, torna «l’entropia» e la città si frammenta. Ma silenziosa, nel film di Dante, rimane accesa, nel buio della notte, una fiaccola.