Tutti se lo chiedono, ma le risposte che danno appaiono perlomeno parziali. Perché insomma e alla fine si è dimesso – o è stato dimissionato – Chuck Hagel, il ministro della difesa degli Stati uniti?

Vederci dentro, come fanno in tanti, la sola questione dell’Isis ancora all’offensiva in Iraq e Siria, è a dir poco un giudizio parziale se non sbagliato. Hagel sarebbe stato sotto tiro per la sottovalutazione dello Stato islamico e per gli scarsi risultati.

Probabilmente è vero esattamente il contrario.

Hagel infatti per primo, e inascoltato da Obama che definiva l’Isis una «squadra di basket» denunciò subito il pericolo del nuovo movimento jihadista. Hagel si è dimesso, o è stato dimissionato, perché su tutti gli scacchieri internazionali non esiste più corrispondenza concreta della politica estera della presidenza Obama. Arrivato a ricoprire l’incarico di capo del Pentagono dopo l’uscita di scena, prima del repubblicano Robert Gates, scelto in continuità con l’ultimo Bush, e poi di Leon Panetta, già capo della Cia, Hagel, repubblicano ma contrario alla guerra all’Iraq di George W. Bush, è entrato in carica nell’epoca dell’annunciato disimpegno statunitense dalla guerra. Per ritrovarsi dentro il rilancio dell’iniziativa armata Usa in molte aree del mondo.

L’elenco è presto detto: in Afghanistan le truppe Usa resteranno almeno fino al 2016; la guerra in Libia, dove Obama è stato tirato per la giacchetta, ma che poi lo ha visto protagonista con l’offensiva dei raid aerei Usa e Nato, ha lasciato la scia di sangue di un nuovo jihadismo armato. Che prima si è rivolto contro la stessa amica intelligence Usa (assolta pochi giorni fa da ogni colpa e invece gravemente responsabile del disastro), con l’assalto al consolato libico di Bengasi e l’uccisione dell’ambasciatore americano Chris Stevens.

Nuovo jihadismo che, grazie ai santuari libici, è dilagato rafforzando il conflitto dell’integralismo di Al Qaeda in Siria contro Assad; dove intanto la coalizione tra occidentali e petromonarchie degli Amici della Siria gestiva una guerra cooperta fatta di addestramenti e forniture di armi a tutti gli insorti anti-Damasco.

L’uccisione di Osama bin Laden, vantata come «la fine di Al Qaeda», è diventata l’inizio di un nuovo proselitismo jihadista con una sua trasformazione in movimento, inverato da una nuova generazione di combattenti, in gran parte occidentali; e così

L’Isis è dilagato conquistando quasi un terzo dell’Iraq, dove Washington ha deciso di far tornare almeno 4mila marine e in forze l’aviazione nei cieli siriano-iracheni.

In Ucraina la copertura di un movimento di protesta pro-europeo perché antirusso, gestito sostanzialmente dall’estrema destra e con una Ue distratta dalla sua crisi, ha visto su piazza Majdan attiva la Cia inviata dalla Casa bianca, e poi la deriva in guerra civile con più di quattromila morti, con l’esercito di Kiev che, appoggiato da ingenti forze Nato dal Baltico alla Polonia, assedia il sudest del Donbass, russo, filorusso e separatista. Pericolosamente ai confini della Russia che, sotto pressione militare dell’occidente, ha risposto riannettendosi la già russa Crimea. Risultato: è riapparsa la Guerra fredda nel cuore d’Europa a 25 anni dall’89.

Fuori elenco, perché è la questione delle questioni, la Palestina. Il cui Stato – promesso da Obama – è cancellato ogni giorno dalle colonie rilanciate dal governo israeliano di Netanyahu che ha da poco concluso l’ennesima guerra di raid aerei su Gaza. Nel tragico silenzio occidentale.

Nonostante le trattative del segretario di Stato, l’inviato del nulla che nulla ottiene. Né lì, né altrove.

Allora perché Obama ha «accettato» la fuoruscita di Hagel?

Non solo perché pensa ad capo del Pentagono più malleabile. Ma soprattutto perché prepara la strada alla successione della candidata democratica Hillary Clinton, cioè ad attivare e legittimare ancora una volta la strategia del militarismo «umanitario» in risposta alla destra repubblicana in vista delle elezioni presidenziali tra due anni.

È l’alternanza strabica che fa forte gli Stati uniti d’America: presidenze democratiche guerrafondaie per la primazia strategica nel mondo, che rincorrono le guerre «tradizionali» della destra Usa. Poi arriva la «saggezza» dei Repubblicani a fronte del peso insopportabile delle lobby delle armi che contano più di ogni Casa bianca. Come denunciò il «soldato pacifista» Eisenhower nel suo discorso di addio alla presidenza nel 1961. Il tutto rincorrendo il miraggio della sicurezza per gli Stati uniti dopo il fantasma concreto dell’11 Settembre.

Ma dopo il dramma di Ferguson, e la litania di «stragi civili» dell’America profonda, di quale sicurezza stiamo parlando? E quali dimissioni bisogna attendere?