Qualcuno che di sicuro guadagnerà dal contratto a tutele crescenti c’è. Si tratta delle banche italiane. E tutte lo faranno a spese dei giovani e dei nuovi contrattualizzati che non potranno più avere la tutela della reintegra sul posto di lavoro cancellata come l’articolo 18. Ma la sorte sarà presto generalizzata se – come sostengono molti esperti del ramo – nel giro di dieci anni, attraverso il turn over, nessuno avrà più il vecchio contratto a tempo indeterminato.

Lo strumento con cui gli istituti di credito nostrani lucreranno sui lavoratori è il mutuo per la casa. Presentando il nuovo contratto a tutele crescenti, in conferenza stampa a palazzo Chigi il 20 febbraiO, Matteo Renzi parlò di «giornata storica, attesa per molti anni da un’intera generazione che ha visto la politica fare la guerra ai precari ma non al precariato. Superiamo l’articolo 18 e i cococo. Nessuno sarà più lasciato solo. Ci saranno più tutele per chi perde il posto e parole come mutuo, ferie, diritti e buonuscita entrano nel vocabolario di una generazione che ne era stata è esclusa». Ad un mese e mezzo di distanza la sortita si sta rivelando l’ormai solita sparata del premier.
Il contratto è legge da quasi un mese ma nessun istituto di credito italiano ha deciso ancora se concederà un mutuo ad una persona che ha il contratto a tutele crescenti.

La scusa che ogni banca accampa non fa una piega: «Nessuno si è ancora presentato da noi a chiedere un mutuo avendo il nuovo contratto». Anche fingersi neo assunti non porta ad avere risposte più specifiche. «La richiesta di mutuo io la giro alla centrale», risponde più di un addetto di front office nelle varie agenzie di Roma di Unicredit, Banca Intesa e Montepaschi, le tre maggiori banche italiane.
Tutti però citano quello che diventerà se non “un obbligo”, quanto meno “un elemento che crea un pregiudizio nell’erogazione del mutuo”. Lo strumento ha vari nomi: «polizza sul mantenimento del posto», «assicurazione sulla perdita del lavoro», «garanzia della continuità del reddito». La sostanza è la stessa: per avere un mutuo serve la certezza del reddito. E con il “tutele crescenti” il rischio di essere licenziati c’è. Ed è alto. Anche se non ancora calcolabile.

Ed è appunto questa incognita – definita in termine bancario «il tasso di rischio» – a frenare l’intero sistema bancario. Se il presidente dell’Abi Antonio Patuelli, dopo settimane di melina in cui si appellava a Bce e all’autorità bancaria europea (Eba) che dovevano «metodologicamente» rispondere al quesito se col “tutele crescenti” si poteva ottenere un mutuo, lo scorso 6 marzo ha sostenuto che «il contratto a tutele crescenti sarà ben visto dalle banche» in quanto «non è un contratto di serie B», sono suoi dirigenti – dietro promessa dell’anonimato che certifica la delicatezza dell’argomento per l’associazione di categoria – a spiegare i termini della questione. «Il problema per le banche è misurare il rischio di licenziamento. Oggi è impossibile farlo. Lo sarà, ad esempio, fra un anno quando sapremo la percentuale dei licenziamenti: se sarà alta, il fattore di rischio sul tutele crescenti sarà allo stesso modo alto e le banche gli erogheranno a fatica. Se sarà basso, gli istituti saranno portati a considerare il tutele crescenti una garanzia simile al vecchio contratto a tempo indeterminato, concedendo più facilmente il mutuo. Nel frattempo però – e qui c’è il cuore del problema – per tutelarsi, tutte chiederanno ai lavoratori col nuovo contratto di sottoscrivere una polizza che li tuteli dal licenziamento».

Esempi di questi strumenti mettono i brividi. Per una richiesta – comunque informale – di mutuo casa da soli 80mila euro, la Banca Popolare di Novara, ad esempio, a chi ha un contratto a tutele crescenti propone una «polizza contro il licenziamento da stipulare assieme al mutuo stesso». Il costo? «Circa 10mila euro». Dunque un ottavo del totale dell’importo del mutuo. Una cifra che spalmata – ad esempio – su dieci anni, farebbe salire la rata mensile del mutuo di circa 40 euro al mese. La formula usata è melliflua, ma chiarissima nei suoi effetti. Dice il responsabile mutui dell’agenzia della Banca Popolare di Novara: «Certo, la polizza non è obbligatoria. Ma la sua sottoscrizione crea pregiudizio rispetto all’accettazione della richiesta di mutuo». Insomma: «Se non accetta, il mutuo non glielo diamo».

Ad una filiale Unicredit invece le cifre non vengono citate, ma si va subito al sodo. «Senza una assicurazione sulla perdita del lavoro non credo proprio che la nostra centrale potrà dare il suo consenso. Sa, senza certezze, come ci potrà ripagare in caso di licenziamento?». Da Banca Intesa non va meglio: «La garanzia della continuità del reddito è un elemento indispensabile per avere il mutuo», spiega l’impeccabile addetto ai mutui.

Esiste comunque in tutti i casi “una subordinata”. Ed è la stessa che viene chiesta “in caso di contratti precari”: «La garanzia di genitori o parenti». Con una firma, saranno loro a prendersi la responsabilità di pagare il mutuo dei figli in caso di licenziamento. Così facendo però il “tutele crescenti” perpetrerà l’apartheid che Renzi voleva cancellare: solo chi ha genitori ricchi, o perlomeno non poveri e precari, aveva, ha e avrà – anche dopo il Jobs act – una casa di proprietà.

Nei giorni scorsi il ministro Giuliano Poletti ha lodato come «risposta positiva ed importante» «la decisione delle banche di di applicare, per la concessione di mutui e prestiti ai lavoratori assunti con contratti di lavoro a tutele crescenti, gli stessi criteri di valutazione nel merito creditizio che venivano adottati per i lavoratori con il vecchio contratto a tempo indeterminato». In realtà si tratta di una forzatura nell’interpretazione delle parole di Giancarlo Abete, presidente di Bnl. Che testualmente ha invece sostenuto: «Sento dire da qualcuno che adesso le banche avranno più difficoltà a erogare i mutui. Ma io chiedo: è meglio un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti o uno a progetto o addirittura in nero? Il mestiere delle banche è prestare denaro – ricorda – perciò sono sicuro che anche il sistema bancario saprà accompagnare bene questa nuova stagione». Abete dunque paragona il nuovo contratto a tutele crescenti ai contratti precari, e non al vecchio tempo indeterminato. Ed è chiaro che rispetto a quelli dia più garanzia alle banche.

In realtà Patuelli ha fatto riferimento anche alle indennità crescenti previste dal nuovo contratto sostenendo come «l’indennizzo monetario rappresenta una garanzia per le banche». Parole che – anche in questo caso – vengono relativizzate da uno dei suoi dirigenti all’Abi. «Ma l’indenizzo è due mensilità l’anno (in realtà una, se non si vorrà passare dal giudice, ndr) , dunque una cifra troppo bassa per garantire la banca dai rischi», specifica il dirigente di Abi.

L’argomento mutui-tutele crescenti è stato toccato anche durante la trattativa sul rinnovo del contratto nazionale, chiusa martedì scorso. Il capo delegazione dei bancari, Alessandro Profumo, in uscita da Mps, ha dato generiche garanzie. Ma niente è stato messo nero su bianco nel contratto. Confermando il fatto che le banche aspetteranno almeno un anno prima di avere una posizione certa. Ma nel frattempo guadagneranno, rendendo obbligatoria l’assicurazione contro il licenziamento. Esattamente quanto Renzi ha tolto hai lavoratori italiani.