Sheikh Radwan, Beit Lahiya, Jabaliya. Si allunga, giorno dopo giorno, l’elenco dei luoghi delle stragi. Ieri altri 30 palestinesi sono stati uccisi, 135 dall’inizio, cinque giorni fa, dell’offensiva aerea israeliana “Margine Protettivo”. Neppure il tempo di raccontare degli al Haj decimati l’altro giorno a Khan Yunis o dei Ghannam uccisi a Rafah, che nuovi raid aerei israeliani ci obbligano ad andare oltre, ad occuparci nel nuovo massacro. Nomi e vite diventano solo lettere che scorrono sullo schermo del computer prima di essere spinte in basso da continui aggiornamenti che negano il tempo per scrivere come si dovrebbe di uomini, donne e bambini uccisi quasi sempre senza un perchè. Come Anas Qandil, 17 anni di Gaza, che aveva affidato a Facebook il suo terribile desiderio. «Dio, ti prego, abbi pietà di me, non ho dormito da ieri. Che la nostra casa sia bombardata e così la faremo finita una volta per tutte». Firmato #Sleepy, il sonnolento. Da ieri Anas dorme per sempre. Lo ha ucciso una bomba in via Nasser.

O gli otto morti e i circa 20 feriti dell’esplosione di un razzo sparato verso un capannello di persone nel quartiere Sheikh Radwan di Gaza. Un perchè ci sarebbe, ci spiegano, il drone intendeva colpire l’abitazione della sorella di Ismail Haniyeh, l’ex premier di Hamas. Essere parenti dei da Israele può costare la vita. Lo ha capito troppo tardi un nipote di Haniyeh, anche lui tra le vittime dell’attacco aereo. E sarebbe stato giusto raccontare con spazio adeguato anche la vicenda di Hola Washahi, 30 anni, e Suha Abu Saada, 47, uccise ieri alle prime luci del giorno a Beit Lahiya, da un missile che ha centrato un istituto di carità per donne disabili. Esistenze, presumiamo, segnate da poche gioie e concluse da una morte assurda. «Per me erano come delle sorelle, vivevano qui da tanti anni ed erano diventate parte della mia famiglia. Noi siamo una struttura umanitaria, ci occupiamo di disabili e di niente altro», racconta Jamila Alaywa, direttrice dell’istituto. Per Israele, a quanto pare, tutti gli edifici di Gaza sono potenziali depositi di armi e razzi e rifugio per “terroristi”. Dall’inizio della settimana 282 case di Gaza sono state rase al suolo, altre novemila sono state danneggiate severamente, di queste 260 non sono più abitabili.

E forse siamo solo all’inizio perché sta, o starebbe, per scattare l’operazione di terra. Dozzine di carri armati israeliani sono stati trasportati su colonne di camion convogliate verso Gaza, dove sono già concentrati migliaia di soldati. Qualche palestinese ieri sera l’offensiva dava per imminente, altri addirittura per cominciata. Chi può fugge. Oggi dovrebbero lasciare Gaza, attraverso il valico di Erez con Israele, altri 800 palestinesi in possesso di un passaporto straniero. I meno privilegiati invece tentato di scavalcare il muro di Rafah con l’Egitto, con esito spesso letali. Ma non il parroco di Gaza, Jorge Hernandez, interpellato ieri a Radiovaticana, che ha spiegato che i cristiani vivono come qualsiasi altro palestinese di Gaza sotto le bombe, in pericolo. «La soluzione per vivere in pace – ha spiegato il sacerdote – suppone la giustizia. C’è mancanza di volontà politica di dare a ciascuna parte il suo. In questo stato di cose non si può pensare la pace».

Il dottor Basam al Aishi, direttore dell’ospedale “Wafa” di Shujayeh, credeva di averne già viste tante nei suoi 47 anni di cittadino di Gaza. Eppure due giorni fa ha preso atto dell’esistenza di nuovi strumenti di morte, lui che le vite pensa a salvarle e a curare gli ammalati. Il suo ospedale da 70 posti letto, ha ricevuto il “roof knocking” (“bussare al tetto”, c’è un video che lo mostra http://www.youtube.com/watch?v=waSPsI9-ge8#t=43). Sono piccoli razzi con cariche di esplosivo ridotte che i droni o i piloti alla guida di elicotteri da combattimento, possono sganciare contro un edificio per avvisare gli occupanti e spingerli ad evacuarlo prima dell’attacco vero e proprio. Di fronte a queste raffinate pratiche di morte, racconta al Aishi, l’intero staff rimase senza parole ma deciso a non muoversi. «Tanto per cominciare molti di noi non sapevano dell’esistenza di questo tipo di missili e comunque il “Wafa” è solo un ospedale con 70 posti letto per la riabilitazione di pazienti feriti in incidenti gravi o che hanno avuto l’infarto. Perchè gli israeliani dovrebbero distruggerlo», si chiede al Aishi. Così l’altro giorno tra uno scambio di battute con i colleghi e una riunione dei 200 dipendenti dell’ospedale, arriva l’attacco vero. «Alle cinque del pomeriggio – ricorda il medico – un razzo ha colpito il quarto piano dell’ospedale, in quel momento vuoto perché per precauzione avevamo trasferito i pazienti nelle stanze più in basso. I danni sono stati notevoli ma per fortuna non ci sono stati morti e feriti». Subito dopo attivisti locali e internazionali hanno formato uno scudo umano per proteggere l’ospedale. «Gli israeliani vogliono spingerci ad andare via – spiega al Aishi – il nostro ospedale è ad est del capoluogo, in quella zona di Gaza (a ridosso delle linee con Israele, ndr) che, si dice, gli israeliani vorrebbero rioccupare per un lungo periodo. La presenza di un ospedale è scomoda, perchè presupppone un viavai di persone che loro non desiderano. Noi però – assicura il medico – non andremo via, resteremo qui a lavorare e riabilitare le persone che ne hanno bisogno».

La fine dell’offensiva israeliana – oltre 2000 missili e colpi sparati in cinque giorni, uno ogni tre minuti, ha calcolato l’Euro-Mediterranean Human Rights Network tra aviazione, artiglieria e marina – è ancora lontana. Non cessano i tiri dei razzi da Gaza. Anzi ieri l’ala militare di Hamas ieri ha persino dato l’orario di inizio dell’attacco su Tel Aviv. «Preparate le vostre batterie di difesa Iron Dome. Alle ore 21 locali (le 20 in Italia) attaccheremo Tel Aviv», hanno annunciato gli uomini delle Brigate Ezzedin al Qassam, precisando che avrebbero fatto uso di razzi J80. Nelle ore precedenti, Hamas e il Jihad hanno lanciato razzi verso le città israeliane del Neghev e del sud del paese e in direzione di Gerusalemme. In un caso un missile si è abbattuto sulla casa del villaggio palestinese di Sair (Hebron), senza fare vittime.

Alle porte ci sono le incursioni di terra. Non deve illudere la dichiarazione dei 15 membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ieri ha chiesto «il ripristino della calma e una ripresa del cessate il fuoco del novembre 2012». La realtà è che all’orizzonte non c’è una mediazione credibile in grado di portare alla tregua. L’Egitto potrebbe svolgere un ruolo decisivo ma il presidente post-golpe Abdel Fattah al Sisi non ha alcuna intenzione di riallacciare i rapporti con Hamas che il Cairo nei mesi scorsi ha dichiarato una organizzazione terrorista. Gli Usa lanciano di nuovi segnali di disponibilità ma non si riesce a capire come Washington possa mediare tra Israele e Hamas, visto che non ha contatti con il movimento islamico palestinese, incluso negli elenchi americani delle organizzazioni terroristiche. Circolano voci di iniziative regionali che potrebbero formalizzarsi durante la riunione di lunedì della Lega araba, ma non c’è nulla di concreto.