Per quanto non ne desse l’impressione, le ricerche della naturalezza e della verosimiglianza consentirono a Carlo Goldoni di realizzare una vera e propria genealogia della morale borghese, probabilmente inconsapevole ma effettiva. Perché fu proprio riconsegnando alla letteratura il posto che le spettava, dirà più o meno De Sanctis, che le sue commedie poterono esprimere un’intelligenza politica a lui stesso ignota. Per Goldoni, in fondo, si era semplicemente trattato di cogliere al volo l’occasione che gli veniva offerta da un attore di nome Francesco Golinetti per mandare in congedo la vecchia commedia dell’arte. E fu proprio a questo signore, infatti, che nel 1738 affidò la prima parte interamente scritta di una commedia, ricavando dallo studio del volto dell’attore un Pantalone finalmente diverso da quello che per circa due secoli aveva calcato la scena.
Dietro la maschera del mercante libidinoso e privo di scrupoli, sul volto di Golinetti era dunque apparso il carattere del buon borghese che «è generoso senza prodigalità, allegro senza essere sciocco, ama le donne senza compromettersi, ama i piaceri senza rovinarsi, si intromette in tutto ma a fin di bene» e desidera fondamentalmente una cosa: starsene in pace. A partire da L’uomo di mondo, questo Pantalone riformato avrebbe dovuto affrontare a viso scoperto le avventure sempre meno gratificanti del Padre di famiglia, del Vero amico e dei Puntigli domestici, portando a maturazione il personaggio che si nascondeva sotto la maschera tradizionale e cedendo infine il testimone alla protagonista eccezionalmente sveglia della Locandiera.
In questo modo, mentre a Parigi venivano condannati i primi due tomi dell’Enciclopédie, nella rappresentazione teatrale che la borghesia veneziana promuoveva di se stessa intervenne una prima, significativa metamorfosi. Da quel momento in avanti la maschera sarebbe stata indossata solo nei giorni che precedono la Quaresima e al riscatto morale del cortesan sarebbero subentrati i meriti dell’astuzia e della simulazione. Per il personaggio di Pantalone, intanto, si era verificata una specie di ritorno alle origini, perché alla resa dei conti non aveva dovuto fare altro che rammendare gli abiti del vecchio insidioso per consegnarli a Mirandolina, la ragazza intrigante che «sembra rispettabile». Dopo tanto chiasso, nel vero carattere che affiorava sul volto di Francesco Golinetti si stava annunciando la stessa maschera che di lì a poco avrebbero cominciato a indossare l’attore di Diderot e il seduttore di Søren Kierkegaard, coloro che non credono a una sola parola di quello che dicono, neppure con lo sguardo.
Se il teatro ha potuto intraprendere questa esplorazione del volto è solo perché la cultura europea aveva già provveduto a trasferire le funzioni antropologiche della maschera nella concezione moderna del ritratto, come sembra sostenere lo storico dell’arte medievale Hans Belting nel suo ultimo e splendido libro Facce Una storia del volto (Carocci, tradizione di Baldacci e Conte, pp. 375, euro 37,00). Un libro che non dissimula la consistenza spettrale del proprio oggetto, dal momento che il volto rimane pur sempre un dato di «natura all’interno di una prassi» e non potrà pertanto che apparire «nella sua periferia sociale e culturale», dall’età della pietra ai giorni nostri. Ed è in questa periferia, allora, che il ritratto si sarebbe cominciato a differenziare dai rilievi, le icone e le vere immagini del culto religioso nel giorno stesso in cui la borghesia mercantile avvertì l’urgenza di rivendicare un ruolo pubblico, assegnando alla tela il difficile compito di celebrare una forma di vita ancora sprovvista di simboli.
Con Antonello da Messina, così, l’originalità psicologica della classe emergente debuttò innanzitutto sui volti della tradizione (Cristo, la Vergine o San Girolamo) per poi determinare le smorfie molto più contemporanee di uomini, giovani o marinai che non ebbero più bisogno nemmeno di un nome. Ai medaglioni dell’identità dinastica, dove il ritratto continuava a soddisfare una vocazione gregaria, successero quindi le peculiarità di un soggetto che orienta lo sguardo sullo spettatore, mobilitando la mimica facciale in una lotta per il riconoscimento.
Eppure, trattandosi pur sempre del riferimento a una realtà viva e in continua trasformazione, sui volti della pittura non poté che andare in scena il congelamento della stessa vita interiore che si candidavano a simboleggiare, rendendo il lavoro del ritrattista tremendamente complesso. Nell’impossibilità di separare il volto da una sua prestazione – che Belting chiama «atto linguistico», entrando implicitamente in polemica con Svetlana Alpers e l’idea che possa esistere una funzione descrittiva del ritratto indipendente dalla sua organizzazione retorica – la ricerca dell’autenticità o della faccia autonoma da qualsiasi contingenza si sarebbe potuta concludere con l’Autoritratto come testa di Golia che Caravaggio eseguì intorno al 1607, dove la piena espressione dell’interiorità si irrigidisce in una maschera funeraria. Ma se quella del volto dipinto rimane inevitabilmente una simulazione, rappresa in una forma statica che può solo citare il ricordo o le tensioni della vita, la maschera si dovrà ritenere vitale, come l’unica membrana che separa lo sguardo dell’altro da un povero teschio, dalle future ambizioni veritative della fisiognomica o dagli oroscopi della frenologia.
Più che a un risultato finale, quindi, il paradosso di Caravaggio farebbe pensare a un punto di partenza per la rappresentazione del volto nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, con l’avvento della fotografia e del video, quando il perfezionamento o l’animazione della maschera non avrebbero consentito di liberarla dal sospetto di manipolare, tradire o rendere comunque ingannevole il rapporto tra le immagini e la vita.
Prima di parodiare la sua stessa illusione di presenza, infatti, la fotografia degli esordi conferì alle immagini uno statuto analogo a quello della reliquia, che non si limita a commemorare qualcuno ma lo trattiene, come il calore nel ferro battutto. I volti ci sono e battono un colpo, come nel corso di una seduta spiritica e come sarebbe dovuto accadere nella spassosissima lettera che Nadar ricevette nel 1856 da parte di un certo Gazebon, il quale gli chiedeva di venire «dagherrotipato» a colori e seduto ai tavoli di una grande sala da biliardo ma in contumacia, senza recarsi fisicamente in rue Saint-Lazar. Così, quando Jean Cocteau posò per Man Ray con la cornice del suo stesso ritratto in mano, non solo la fotografia smise di registrare la presenza atmosferica di un volto indipendente da qualsiasi narrazione, ma il gioco delle maschere risultò finalmente sfacciato, privo di ogni rossore ontologico e morale, proprio come le macchinazioni della locandiera.
Nel tentativo di testimoniare una maggiore adesione alla vita delle teste decapitate, a questo punto, i volti avrebbero cominciato ad adottare una strategia coerente all’intuizione di Caravaggio, definendosi per negazione, come il fantasma che rende comunque compulsiva e seriale (Andy Warhol), drammatica (Ingmar Bergman), deturpabile (Arnulf Rainer) o ironica (Nam June Paik) la persistenza della maschera. Non più reportage ma antifrasi della vera presenza, per esprimere «l’essere mutevole che siamo» la maschera si trovava ora a dover continuare a sprigionare un’eccedenza irriducibile a qualsiasi «intrigo» determinato, come scrisse Michel Leiris a proposito di Francis Bacon. Lo avrebbe dovuto fare in pittura, senz’altro, ma forse non sarebbe stato superfluo che avesse cominciato a farlo anche per strada, dove tuttora la faccia si mette negli aggiornamenti di stato o nelle performance benefiche, non si perde quasi mai ed è entrata stabilmente al servizio dell’economia digitale. A partire dalla consapevolezza che quando sui volti non va in scena un’esplorazione, ma un colpo di teatro, attraverso il campionario delle pose e degli ammiccamenti la società dello spettacolo sta ancora esibendo alla folla il rivestimento muscolare di una testa mozzata, la nostra.