L’anno di nascita è il 1944, «terza generazione», i tedeschi figli della guerra, e del nazismo, cresciuti nella ricostruzione,nella Germania che vuole lasciarsi alle spalle il passato anche – o soprattutto – a costo di censurarlo. È da qui che arriverà la Nuova onda del cinema tedesco, Fassbinder è del 1945, Kluge è un po’ più grande, del ’32 come Edgar Reitz. Peter Nestler è del ’37,più vicino a Straub e Huillet, anche loro fratelli maggiori di Farocki, tutti «provocatori» che non accettano di chiudere nei cassettini ordinati della convenienza la Storia, e vogliono invece affrontare silenzi e ombre.
Insieme alla coppia Straub-Huillet Farocki lavora – ad esempio su Klassenverhältnisse- Rapporti di classe (’83) – in comune hanno la lucida critica a un sistema politico e l’uso dell’immaginario per smascherarne le tecniche di seduzione (o sarebbe meglio dire coercizione?).
Farocki è cecosclovacco, quando viene al mondo, a Nový Jicin, il suo paese è occupato dai nazisti. Negli anni Sessanta studia a Berlino, alla Deutsche Film und Fernsehakademie, dove continuerà a insegnare finora crescendo alcuni dei talenti di punta del cinema tedesco contemporaneo, a cominciare da Christian Petzold, che insieme a Farocki ha sceneggiato quasi tutti i suoi film. E questo aspetto di trasmissione va molto oltre la didattica. Se prendiamo un film di Petzold come Yella (2007), sorprendente nel prefigurare la crisi finanziaria attuale che ha devastato le democrazie europee, vi troviamo un’idea di messinscena in costante opposizione ai meccanismi del controllo: sociali, culturali, politici, economici. E questo è l’insegnamento prezioso di Farocki.
Lo scorso inverno, durante la Berlinale,all’Hamburger Bahnhof si è inaugurata la mostra di Farocki Serious Games, l’allestimento comprende i lavori del ciclo omonimo (2009-2010) in cui Farocki esplora l’uso del videogame nel training dei soldati americani alla guerra in Iraq e in Afghanistan. Le diverse situazioni ricreano virtualmente deserto, nemici senza volto, agguati, bombe, imboscate, tradimenti. Ma anche ferimenti, morti, perché lo stesso sistema viene utilizzato coi soldati che hanno subito un trauma.
La mostra – visibile fino al prossimo gennaio 2015 – presenta anche dei lavori più vecchi, degli anni Sessanta, come Inextinguishable Fire (1969) in cui lo stesso Farocki davanti alla macchina da presa, nella grana in bianco e nero della pellicola (pure se rimasterizzata) legge un manifesto contro la guerra in Vietnam. I diversi personaggi sono ricercatori che lavorano alla Dow Chemical in Michigan, l’azienda che produceva il napalm utilizzato per sterminare i vietnamiti. Il quesito morale qui è: lascio la ricerca o accetto il compromesso? Finché nel bagno della fabbrica uno degli lavoratori non si cambia tirando fuori un mitra …
Più o meno in quegli anni, a proposito di sinergie, Straub e Huillet avevano girato Non riconciliati (1965), durissimo attacco alla continuità ciol nazismo nella Germania del boom. Alla scuola di cinema compagno di Farocki era Holger Meins, che prima di entrare nella Raf aveva girato dei film – come Making a Molotov Cocktail – e sarà ucciso in galera dallo sciopero della fame. Straub ha detto spesso che in quella Germania, se non avesse continuato a fare film, forse anche lui sarebbe finito nella lotta armata. I primi corti di Farocki, in bianco e 16 millimetri agit prop, sono sulla stampa borghese (Their Newspapers ’68), o in memoria di Rudi Dutschke (Drei Schüsse auf Rudie), o White Christmas, ’68 dove Bing Crosby canta Peace on Earth mentre il regista ricorda che le bombe piovono sul Vietnam.
Negli anni Farocki ha realizzato moltissimi film (circa una novantina di titoli), ed è anche forse il filmmaker che più sperimenta nel crossover delle immagini in movimento, utilizzando gli stessi materiali per modalità della visione diverse, sala o installazione. Del resto è lui a dire che i suoi film non sono cinema né televisione.
E però la poetica di Farocki, continua a esplorare in un continuo corpo a corpo col proprio tempo, la natura dell’immagine, la sua verità possibile e la sua menzogna (reale), lo spazio di una manipolazione che rende ciò che vediamo fragile e al tempo stesso fortissimo. L’immagine che replica il nostro mondo, e insieme lo costruisce (e costituisce) e che non può mai per statuto essere neutra, semplice registrazione, «innocente». Al contrario, l’immagine irregimenta, è in continua connessione col potere, asseconda la sua versione della Storia, della cultura, l’iconografia dell’altro.
Sono esemplari in questo senso i suoi lavori a partire dalle telecamere di sorveglianza, o la decostruzione degli operai che escono dalla fabbrica origine del cinema. E soprattutto Videogramme einer Revolution, Videogrammi di una Rivoluzione, realizzato insieme al cineasta rumeno Andrei Ujica – presente nella mostra berlinese. Perché se il senso teorico del percorso èla verità dell’immagine, qui nella rivoluzione fatta dalla tv (ma diceva Gil Scott Hero The Revolution Will Not Be Televised) che è stata quella nella Romania di Ceasescu, con l’esecuzione del capo e di sua moglie in diretta, cosa ci mostra la videocamera? Grazie alla tecnica filma la storia, purchè ci sia la Storia riflette Farocki rivedendo i materiali. L’immagine da sé non basta, non può bastare, non può essere verità. È la resistenza dell’artista.