Chiunque volesse capire cosa significa vivere a Hebron sotto occupazione, circondato da posti di blocco militari e da coloni israeliani decisamente poco amichevoli, doveva andare a casa del dottor Hashem Azzeh nel quartiere di Tel Rumeida. Per comprendere quella realtà doveva ascoltare i racconti di vita quotidiana di questo medico palestinese colto e dai modi gentili, contrario alla violenza, divenuto nel corso degli anni l’incarnazione nella sua città del “sumud”, la resilienza palestinese nelle condizioni più dure. «Non me ne vado, non riusciranno a cacciarmi da casa mia», ripeteva.

[do action=”citazione”]La sua stessa esistenza è stata un atto di resistenza.[/do]

Hashem Azzeh, 54 anni, se n’è andato due giorni fa, è morto mentre cercava di raggiungere l’ospedale tra lo sgomento della famiglia e degli amici, palestinesi e stranieri.

Mercoledì Azzeh aveva accusato forti dolori al petto. Ha capito subito che doveva correre all’ospedale più vicino. La sua famiglia ha chiamato un’ambulanza che non è stata in grado di raggiungere l’abitazione a causa dei posti di blocco dell’esercito, ancora più rigidi dopo l’inizio della nuova Intifada. Il medico non ha avuto scelta. Si è incamminato verso Bab Zawiyeh, che divide il settore H1 palestinese dal settore H2 controllato dai militari israeliani. Lì ha trovato i soldati che sparavano lacrimogeni verso i giovani che lanciavano sassi, in protesta per l’uccisione di due ragazzi palestinesi avvenuta la sera prima.

«In quell’aria satura di gas lacrimogeni mio zio, già molto debole, ha avuto una crisi respiratoria. È crollato perdendo conoscenza», raccontava ieri Sundus, la nipote. Soccorso, il dottor Azzeh è giunto all’ospedale in condizioni disperate. I medici hanno potuto fare ben poco per salvarlo. È difficile stabilire quanto i lacrimogeni abbiamo contribuito alla morte del medico palestinese, con ogni probabilità colpito da un infarto.

Certo un contributo alla sua morte è venuto da quei posti di blocco che da oltre venti anni circondano la sua abitazione, dai controlli asfissianti attuati a Hebron anche nei confronti del personale sanitario palestinese. Se fosse stato portato subito in ambulanza all’ospedale, Azzeh avrebbe avuto qualche possibilità in più di salvarsi.

Ieri in tanti lo hanno accompagnato nell’ultimo viaggio. Gente in lacrime, volti segnati dal dolore, palestinesi e stranieri. Tutti uniti nel ricordare la sua ferma decisione di non abbandondare la sua abitazione, anche se ogni giorno solo per andare a comprare il latte alla bottega accanto casa, la sua famiglia era (e sarà ancora) costretta a passare per metal detector e controlli. Ogni volta, ad ogni passaggio. Un trattamento al quale non devono sottoporsi i “vicini”, i coloni che vorrebbero vedere questa famiglia palestinese lasciare Tel Rumeida.

«Gli avevano offerto soldi per andare via – ricorda Jawad, un giovane attivista di Hebron -Hashem però aveva sempre rifiutato. Ripeteva che se tutti i palestinesi partissero o accettassero di vendere casa ai coloni, sarebbe la fine per Hebron e per il nostro popolo».

Azzeh organizzava “visite guidate” per giornalisti e attivisti, durante le quali con toni mai accesi spiegava cosa avviene a Hebron e intorno alla sua abitazione. Con filmati amatoriali ha raccontato gli abusi subiti dai figli e dalla moglie, da tutta la sua famiglia, ai quali il medico ha sempre risposto con le parole, senza violenza, pronunciando la stessa frase «Non me ne vado».

E con quelle parole risponderanno in futuro la moglie e i quattro figli, il maggiore ha 17 anni, il più piccolo appena cinque.

Ieri a Bet Shemesh un israeliano è stato ferito con una coltellata da un palestinese, poi ammazzato dalla polizia. Poche ore prima un ebreo era stato ucciso da una guardia di sicurezza, dopo aver cercato di prendere l’arma a un soldato, perchè scambiato per un palestinese. Sono decine i giovani arrestati da polizia ed esercito nelle ultime 48 ore a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, oltre 800 dall’inizio di ottobre secondo fonti palestinesi.

«Questa crisi non sarebbe scoppiata se i palestinesi avessero avuto la speranza di un proprio Stato – ha detto ieri al Consiglio di Sicurezza il vice segretario generale dell’Onu, Jan Eliasson – Se i palestinesi non vivessero sotto un’occupazione soffocante e umiliante che dura da quasi mezzo secolo».