Per quanto incredibile possa sembrare a chi ha seguito da vicino la campagna per le elezioni presidenziali del prossimo 8 novembre, Donald Trump può vincere. Non per lo “scandalo” delle email di Hillary, che nessuno ha capito bene dove stia se non nella propaganda dei repubblicani, ansiosi di far dimenticare le ben più reali violazioni della legge da parte del loro candidato, a cominciare dall’evasione fiscale.

Il problema sta piuttosto nella struttura della coalizione democratica, in cui hanno un peso determinante i giovani e le minoranze.

E’ un fatto che le fasce d’età, insieme alle origini etniche e geografiche rimangono un fattore essenziale nelle elezioni americane. I giovani non amano Hillary e nelle primarie avevano preferito Bernie Sanders: malgrado l’impegno di quest’ultimo a fianco della Clinton è possibile che molti di loro scelgano di astenersi, o di votare per un candidato minore.

Il 90% degli afroamericani e il 60% degli ispanici vota democratico, sia per ragioni storiche, sia perché i democratici sono favorevoli all’immigrazione, che prevalentemente viene dall’America Latina, quindi da paesi di lingua spagnola. Poiché questi due gruppi sono però minoranze (il 13% della popolazione i primi, il 17% i secondi) molto dipende da quanto compattamente si recheranno a votare: la coalizione democratica è concentrata nelle aree urbane e ha bisogno di una elevata partecipazione al voto per compensare la prevalenza dei repubblicani nelle zone rurali.

Nelle ultime elezioni New York, Filadelfia e Los Angeles hanno votato largamente per Obama, mentre le aree rurali dello stato di New York, della Pennsylvania e della California sceglievano il suo avversario. Lo stesso accadeva a Minneapolis, a Chicago e a Seattle, che da decenni votano democratico mentre pochi chilometri più in là dominano i repubblicani.

Nel caso degli afroamericani, però, quanto è ripetibile l’entusiasmo creato da Barack Obama nel 2008 e nel 2012?

Senza la storica novità di un candidato nero alla presidenza, il loro tasso di partecipazione elettorale potrebbe tornare alla normalità, cioè a scendere sotto il 50% degli aventi diritto. Quest’anno gli ispanici, motivati dall’atteggiamento xenofobo di Trump verso gli immigrati, potrebbero andare a votare più numerosi di quanto non siano stati nelle ultime due elezioni ma non c’è nessuna garanzia che ciò avvenga.

In questi giorni Donald Trump ha concentrato i suoi sforzi sulle zone colpite dalla deindustrializzazione, gli stati dove un tempo si produceva l’acciaio, e con esso le automobili, i treni, gli aerei che hanno vinto due guerre mondiali e trascinato una parte consistente degli operai nei confortevoli sobborghi della classe media: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin. Sono tutti stati che da decenni non votano repubblicano nelle elezioni presidenziali, ma che ospitano milioni di maschi bianchi senza educazione universitaria, l’unico gruppo sociale veramente entusiasta del palazzinaro di New York.

Il risultato di queste elezioni dipenderà da quanto e come i bianchi a basso reddito, danneggiati dal trasferimento all’estero delle industrie tradizionali e fortemente ostili agli immigrati, andranno a votare.

I maschi bianchi senza educazione universitaria percepiscono gli immigrati come un gruppo che abbassa i salari dei lavoratori manuali e ne ruba i posti di lavoro. Trump è quindi diventato il candidato delle praterie, di chi è stato lasciato indietro, del lavoro precario, o di una sopravvivenza grazie ai magri sussidi della Social Security.

Secondo un recente studio dell’economista Alan Krueger sono oltre 7 milioni gli americani maschi tra i 25 e i 54 anni che non hanno lavoro e non lo cercano perché scoraggiati, quindi non sono contati fra i disoccupati.

Il tasso ufficiale di disoccupazione, attorno al 5%, maschera un forte calo del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, che nel 2007 era il 66,4% e adesso è il 62,9%, tre punti e mezzo in meno, dieci milioni di persone. C’è da stupirsi che un altro studio recente leghi l’aumento dei suicidi tra i maschi adulti all’insicurezza economica?

L’ultimo sondaggio diffuso ieri dà Hillary in vantaggio di tre punti percentuali su Trump ma i sociologi conoscono da decenni un meccanismo noto come “spirale del silenzio”, cioè il fatto che i candidati giudicati in modo negativo sui grandi media vengono sottostimati nei sondaggi perché una frazione dei loro sostenitori non osa confessare la propria preferenza per un leader impopolare.

Quindi nelle urne spuntano poi più voti di quanto ci si aspettasse per il candidato dato come perdente. E’ molto probabile che qualcosa di simile accada anche per Trump (e non dimentichiamo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea).

La rimonta di Trump era in fondo prevedibile: un paese politicamente spaccato in due, si vota soprattutto contro l’altro candidato, più che a favore del proprio, e quindi anche gli elettori che non amano il rappresentante del partito alla fine si rassegnano a votare per lui.

In queste ore, molti repubblicani si stanno convincendo a votare per Trump turandosi il naso.

Quest’anno sembra che siano i democratici il partito favorito dal meccanismo del suffragio indiretto (il collegio elettorale di 538 delegati che effettivamente elegge il presidente) ma ci sono vari scenari plausibili in cui un miliardario incompetente, xenofobo e razzista come Trump potrebbe prevalere.

Per esempio, se i repubblicani mantenessero la maggioranza dei voti popolari negli stati in cui vinse il loro candidato Mitt Romney nel 2012 e ad essi si aggiungessero Florida, Iowa, Nevada, New Hampshire e Ohio il conteggio finale sarebbe 269 a 269 grandi elettori e, in base alla Costituzione, a decidere chi sarà il prossimo presidente sarebbe la Camera dei rappresentanti. Dove c’è una solida maggioranza repubblicana.

Il risultato più probabile rimane una presidenza Clinton, che sarà però paralizzata dal controllo repubblicano del Congresso (con i numeri attuali i democratici difficilmente riprenderanno il controllo anche del solo Senato).

Tutto questo non potrà che aggravare le disuguaglianze e lasciare marcire i problemi più urgenti del paese: una ricetta esplosiva per i prossimi quattro anni.