Il presidente della Francia François Hollande, ripete instancabile: «Siamo in guerra». Questa guerra è un bel problema per tutti, non solo per i francesi. È senza avversari riconoscibili a meno che non si considerano come tali i giovani emarginati, privi d’identità che la congiuntura geopolitica pesca, per il momento, tra gli immigrati di origine islamica. Questi giovani senza passione, che cercano una via d’uscita, non verso un avvenire decente (miraggio impossibile), ma da una vita che guardano come un enigma incomprensibile, portano con sé il maggior numero possibile di soggetti “altri”. Questi “altri” sono oggetti smarriti del loro desiderio (tra cui potrebbero casualmente finire i loro fratelli o sorelle).

I soldati assassini di una causa che non c’è, a meno che non si voglia attribuire progettualità a un’internazionale di impazziti, sono il sintomo, tanto allarmante quanto inascoltato, di un disagio psichico profondo della nostra civiltà, di un modo assurdo di concepire e gestire la nostra vita. Ci dovrà pure essere qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di vivere se dei figli adottivi della nostra casa, supposta ospitale, si trasformano in feroci omicidi. Non ci sprona a riflettere neppure il carattere tipicamente suicida dell’azione omicida. Al di là delle mitologie religiose del “martirio”, la scelta di morire con chi uccidi ha un significato psicologico chiaro: morire insieme al posto di vivere insieme. In questa dimensione, in cui il desiderio superstite brucia con la rapidità di un pezzo di carta, lasciando solo ceneri, sopravvive fugacemente l’umanità dell’attentatore e la nostra.

Abbiamo smarrito la capacità di convivere e questo è accaduto prima delle “invasioni barbariche”, nelle nostre società “avanzate” in cui la solitudine è diventata sinonimo di “privato”. Dopo avere sconvolto il pianeta con il nostro modello di scambi ineguali con l’altro, conserviamo sufficienti scorte di arroganza (hubris) per meravigliarsi della pazzia che ci colpisce, dopo averla seminata a piene mani. Ignari del fatto che l’elemento “barbarico” (lo sfruttamento-uccisione dell’oggetto di desiderio) abita in noi.

Il presidente francese vuole istituire una “guardia nazionale”, chissà se il caldo nell’Eliseo sia insopportabile (anche in tempi di crisi l’aria condizionata dovrebbe funzionare). Nessun medico, sano di mente, si sognerebbe di dichiarare guerra ai sintomi, lasciando divampare la malattia che li produce. Dal punto di vista di un medico (e più generalmente di chi preferisce la cura al macete) il manifestarsi di un sintomo è altamente preferibile al progredire asintomatico della malattia (ne sanno qualcosa tanti nostri cari, vittime di malattie che esplodono quando ormai non c’è più nulla da fare). Può sembrare scandaloso dirlo (tanto abbiamo perso il senso della misura), ma gli attentati di questi tempi sono un nostro alleato sul piano semeiotico se vogliamo capire e curare il morbo che ci affligge.

Nelle circostanze in cui viviamo è una tentazione comprensibile armarsi di bisturi per aggredire il “tumore”. Sennonché dal momento che gli attentati sono la manifestazione di una malattia sistemica del nostro “organismo” e niente affatto un tumore localizzabile, il bisturi rischia di far solo danni. Inoltre, dal momento che, nonostante gli sforzi di esteriorizzare i sintomi (per combatterli come male venuto da fuori), essi sono parte di un nostro processo morboso, guerreggiare con loro ci porta oltre l’abbaglio di Don Chisciotte. L’espressione che meglio descrive la condizione del cavaliere Hollande è: «Il cane che si morde la coda». Speriamo che guarisca.