Il primo sentimento che rimane dopo averlo visto è di irritazione, specie per quella pulsione misogina che rende la protagonista, Mina, mamma ossessionata dal proprio ruolo al punto di quasi uccidere il figlietto privandolo del nutrimento – (perfettamente speculare in questo al maternale che nutre, entrambi segno del potere della Madre che rende il cibo terreno di costante rivolta/ricatto) una vittima predestinata. E giustificata nonostante l’attrice, Alba Rohrwacher che per questo ruolo ha vinto la Coppa Volpi insieme al coprotagonista Adam Driver alla scorsa Mostra di Venezia, abbia più volte detto, insieme al regista, che il loro intento era di farle volere bene a Mina.

In effetti il nuovo film di Saverio Costanzo è diversamente misogino (diciamo meno arrabbiato) del romanzo autofinzione di Marco Franzoso, Il bambino indaco (Einaudi, 2012) da cui ha preso spunto, perché Costanzo sin dall’inizio ci dice, in un scena cruciale, che se Mina va fuori di testa la responsabilità è di lui, del ragazzo, idea che rimane abbastanza costante, almeno nella complicità silente prima e nella goffaggine anche crudele poi dei suoi tentativi di soluzione.I due si sono incontrati per caso, rimasti chiusi nel puzzolentissimo cesso del ristorante cinese, come commedia vuole è colpo di fulmine e la scena successiva ce li mostra a letto insieme nell’appartamento newyorchese che dividono. Lei, italiana, riceva una telefonata di lavoro in cui le dicono che deve rientrare in Italia, lui ascolta, le salta addosso, fanno l’amore e lui rimane a forza dentro di lei quasi a trattenerla. Scena successiva lei è incinta e guardando l’orizzonte un po’ sconfortata chiede: cosa ce ne faremo di un bambino?

Seguono nozze a ritmo di What a Feeling (Flashdance) e sogni di presagi mortali (il classico cervo ammazzato), crisi di lei con fascinazioni mistiche per santone e veggenti che la convincono di aspettare un figlio speciale (credo che valga per ogni madre), un bimbo indaco con doti soprannaturali. Fino ai guai che scivolano nella follia, con la donna che ostinata taglia fuori il mondo per proteggere suo figlio, l’uomo che all’inizio la asseconda finché si rende conto che il bimbo è in sofferenza perché lei non lo fa mangiare.
Più che madre assassina è una strabica relazione di coppia, pure se poi Costanzo elimina, o meglio fa eliminare dalla madre dell’uomo, a sua volta demiurga delle sorti del figlio (e del nipotino) Mina, liberando l’orizzonte dalla presenza femminile.

Ma Hungry Hearts non è tanto diverso dal precedente La solitudine dei numeri primi, e per questo più che di misoginia (che pure c’è) sembra il grembo familiare lo spavento horror di Costanzo, il luogo in cui qualsiasi relazione finisce per essere impossibile, avvelenando sé stessa e coloro che vi prendono parte, e quello dove esercitare un’imprevedibilità dello sguardo. Uomo e donna psicotici, genitori indifferenti o ingombranti (anche questa un po’ di autofinzione?), interni familiari di un’autodistruttività che passa sul corpo – può essere anoressia o bulimia.

Uomo/donna non è però ragazzo incontra ragazza corollario fondante ogni storia, perché Costanzo non svuota fino in fondo della narrazione i suoi personaggi. Piuttosto li utilizza per esercitare la sua idea postmoderna del cinema che nei rimandi e nelle citazioni prova a forzare i propri limiti.

Hungry Hearts potenzia al massimo questa sua tendenza, siamo a New York, la città del cinema, Mina e Jude diventano Annie Hall e Woody Allen di Io e Annie, passando poi a Rosemary’s Baby e l’Inquilino del terzo piano, con lo stroboscopio che deforma mostruosamente il corpo di Alba Rohrwacher e la loro casa. E horror, caccia, il paesaggio americano dell’immaginario che quasi sovrasta la narrazione. Rispetto alle convenzione ormai da fiction (brutta) tv a cui rimanda tanto nostro cinema lo sforzo visionario di Costanzo, come la sua sovresposizione, è senz’altro eccentrico. Quello che gli manca è forse la capacità di metabolizzare fino in fondo le sue ossessioni nelle immagini liberandole da qualche eccesso di programmaticità .