Benyanim Netanyahu pressato dal capo dello stato Rivlin è stato costretto a scusarsi con i cittadini arabi per il suo appello, nel giorno delle elezioni, agli ebrei ad accorrere alle urne per bilanciare il voto massiccio nelle località arabe. Compiuto il sacrificio, il premier ora si appresta a formare il suo governo con gli ultranazionalisti e i religiosi. Ha quattro settimane a disposizione. L’unica vera difficoltà che deve affrontare sono gli appetiti dei suoi partner della coalizione che reclamano ministeri importanti, a cominciare da quello dell’edilizia, “centro di comando” della colonizzazione. Proprio i coloni israeliani, entusiasti per l’esito del voto e caricati dalle promesse del primo ministro, vanno avanti con i loro progetti. Ovunque, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Una attività intensa, che non conosce soste. Ne sa qualcosa Mustafa Sob Laban, 65 anni, pensionato. «Viviamo nella paura, ci aspettiamo che da un momento all’altro arrivino quelli di Ataret Cohanim (una organizzazione di coloni israeliani che opera nella città vecchia di Gerusalemme, ndr) assieme alla polizia e ci buttino fuori dalla casa dove la nostra famiglia vive dal 1953», ci dice accogliendoci nei pochi metri quadrati dove vivono in otto. Lui e la moglie Noura, Rafat il figlio più giovane, Ahmad il figlio sposato con sua moglie e tre bimbi. «Il più piccolo ha 3 anni, il più grande 9 e si chiama Mustafa, come me. Ora sono fuori casa, chi all’asilo e chi a scuola», ci racconta con in volto l’espressione felice di tutti i nonni quando parlano dei nipotini. Il 31 maggio l’Alta Corte di Giustizia israeliana esaminerà il ricorso contro l’espulsione presentato dalla famiglia palestinese. Mustafa, moglie e figli non si fanno tante illusioni, rischiano di ritrovarsi senza un tetto e di dover lasciare la casa dove pensavano di rimanere fino alla fine dei loro giorni. Domenica scorsa centinaia di palestinesi e attivisti stranieri e alcuni israeliani, hanno manifestato davanti alla casa minacciata di occupazione al grido di “Basta discriminazioni, no ai coloni”, “Proteggiamo la famiglia Sob Laban”. Mustafa ha capito di non essere solo.

 

La casa dei Sob Laban è in Aqbat al Khaldiyya, nel cuore del quartiere musulmano della città vecchia di Gerusalemme. È a pochi metri da Suq al Qattanin, uno degli ingressi più spettacolari sulla Spianata della moschea di al Aqsa. E dal terrazzino di casa Sob Laban la cupola dorata della moschea della Roccia è incredibilmente vicina, una illusione ottica la fa apparire a portata di mano. Accanto all’abitazione sventola una bandiera israeliana, che segna la presenza di un istituto religioso nazionalista. La differenza di ampiezza degli ingressi dei due edifici simboleggia i rapporti di forza. Ampio e restaurato quello israeliano, un portoncino di colore verde sbiadito quello della famiglia palestinese. Quelli di Ataret Cohanim dal loro stabile, occupato tanti anni fa, si sono già spostati in quello accanto. Dal porticino malandato si accede subito a due appartamenti dove ora vivono i coloni. I Sob Laban sono qualche gradino più in alto e resistono, da decenni. «È una storia lunga – spiega Musfafa –, questa casa è affittata dal 1953. A quel tempo i nostri genitori pagavano l’affitto alle autorità giordane (che hanno occupato Gerusalemme Est dal 1948 al 1967, ndr), e quando sono arrivati gli israeliani hanno continuato a versarlo alle nuove autorità. Tutti i mesi, regolarmente». Nel 1984 un giudice israeliano ordina ai Sob Laban di lasciare la casa, perchè pericolante. «I lavori di ristrutturazione sono andati avanti per cinque anni e quando siamo tornati abbiamo trovato l’ingresso della nostra casa sbarrato dai coloni – continua Mustafa –, dopo un’altra lunga battaglia legale, nel 2001 una corte israeliana ha sentenziato il nostro diritto ad aprire un nuovo ingresso. Purtroppo la vicenda non si è fermata quell’anno e nel 2010 quelli di Ataret Cohanim ci hanno intimato di lasciare la casa. Infine lo scorso 14 settembre ci è stato consegnato un ordine di sgombero del tribunale di Gerusalemme che, sostenendo una nostra presunta morosità, ha dato ai coloni il diritto di occupare casa nostra. Ma noi abbiamo sempre versato l’affitto e anche l’arnona (simile all’italiana IMU)». I coloni da parte loro sostengono che la casa apparteneva, prima del 1948, ad una famiglia ebrea e che i Sob Laban non avrebbero versato sempre l’affitto. «Sono pretesti – dice Mustafa -, usati dai coloni per toglierci la casa. E la legge israeliana fa il loro gioco».

 

Questa non è una storia di proprietà contese, di inquilini morosi e di carte bollate. Questa è la battaglia per Gerusalemme, che ogni giorno oppone i coloni israeliani, vogliosi di «redimere» la zona araba occupata nel 1967, e i palestinesi che si oppongono come possono ad una costante azione di penetrazione, non solo nella città vecchia. Ai piedi della mure antiche, a Silwan, altre cinque famiglie palestinesi hanno ricevuto nei giorni scorsi un ordine di demolizione. Le loro case sono abusive, dicono le autorità comunali israeliane. I coloni che agiscono contro le leggi e le risoluzioni internazionali invece sono “in regola” e in attesa del nuovo governo amico scavano, costruiscono, occupano.