Si chiamano Nina, Ulrike, Polina, Shlomith, Rosa Imaculada, Wlbgis e Maimuna. Hanno storie e percorsi diversi, vengono da ogni parte del mondo, non parlano la stessa lingua. Si incontrano in uno spazio bianco, vuoto, forse un limbo. Non ricordano che cosa gli sia successo né sanno dove si trovano o perché: sono ancora vive o sono morte? Decidono così di intraprendere a turno un percorso a ritroso tra i brandelli dei loro ricordi. Ognuna di esse, grazie al sostegno delle altre, troverà il modo di ricostruire la propria identità e pronunciare una parola capace di donare loro per sempre la libertà.

Con Oneiron, appena pubblicato nella collana Scatti della casa editrice Elliot (traduzione di Irene Sorrentino, pp. 416, euro 18,50: il romanzo sarà presentato domenica 11 dall’autrice, insieme a Valeria Parrella e Sylvia De Fanti, a Più Libri Più Liberi, alle ore 17), dopo il grande successo ottenuto in patria e nell’edizione di quest’anno della London Book Fair, la scrittrice finlandese Laura Lindstedt costruisce un romanzo corale, intessuto di rimandi psicologi e filosofici che interroga il lettore sullo spazio dei corpi e della coscienze individuali rispetto alle convenzioni sociali e alle appartenenze e alle identità collettive. Qualità che hanno fatto di questo libro, seconda prova letteraria di Lindstedt, nata nel 1976 a Kajaani e studiosa del nouveau roman francese e dell’opera della scrittrice Nathalie Serraute, uno dei maggiori casi editoriali dell’anno in tutta Europa.

«Oneiron», la parola greca che indica il sogno, in questo caso è pronunciata da un gruppo di donne come una formula che serve a prendere consapevolezza della propria morte. Perché questa scelta?

lindstedt

Il termine «oneiron» si è imposto nella mia mente, come una sorta di apparizione, durante l’estate del 2007, subito dopo che avevo pubblicato il mio primo romanzo, Sakset, le forbici, e mentre stavo cominciando a pensare che avrei voluto lavorare in una qualche forma narrativa intorno al tema della morte. È stato solo dopo aver immaginato questa parola, o essermi forse imbattuta casualmente in essa, che ne ho cercato il significato e ho scoperto che significa «sogno» in greco. Dopo questa sorta di scoperta un po’ mistica era chiaro che avevo trovato il nome per il mio prossimo romanzo. Del resto, come sappiamo, il sogno è un modo eufemistico di definire la morte. In realtà, in Oneiron non offro alcuna spiegazione del significato della parola, la utilizzo piuttosto come una sorta di formula magica.

Le sette protagoniste si incontrano in uno spazio neutro, indefinito e quasi per farsi coraggio si raccontano reciprocamente le proprie esistenze fino all’attimo fatale che le ha condotte lì. La solidarietà che cresce tra loro è forse la caratteristica più forte del romanzo: si tratta del senso ultimo di questo suo lavoro?

Definire lo spazio immaginario dell’aldilà bianco, vuoto, estraneo alle leggi naturali ha rappresentato il mio punto di partenza quando ho cominciato a scrivere il romanzo. Si trattava di evocare un’immagine di horror vacui non solo di fronte all’irrefutabilità della nostra natura mortale, ma anche nei confronti dello stesso processo creativo: è infatti tutt’altro che una pura coincidenza il fatto che il colore di questo aldilà sia il medesimo di un foglio di carta bianco. Questa scelta mi concedeva infatti la massima libertà di immaginare, e, allo stesso tempo, offriva la medesima libertà anche alle sette donne protagoniste di Oneiron. Sono loro che devono costruire, e raccontare, tutte le loro storie individuali se non vogliono rischiare di impazzire del tutto in questo spazio vuoto e spoglio. Quanto al valore della solidarietà, credo propria sia la sola forza che possa salvarci.

Fino a che punto è giusto leggere tutto ciò come una metafora della condizione di genere, come il voler dare ascolto a voci di donne lungamente negate?

Come scrittrice desidero in particolare sottolineare e rendere visibili alcune sfumature della comunicazione, delle zone d’ombra della coscienza. In questo lavoro ricorro all’aiuto del narratore/narratrice, il che rappresenta un modo di lavorare estremamente vantaggioso, che mi permette di creare della voci polifoniche, delle coscienze «contro-natura» che mescolano le voci dei personaggi e la voce della coscienza narratrice. Le cose che racconto in forma di finzione narrativa non sono mai semplici, si muovono sempre su diversi piani e dimensioni, talvolta anche reciprocamente incompatibili. Perciò, questo lavoro è già politico fin dall’inizio, nel senso più ampio del termine, a partire dalla scelta dei temi trattati, del sesso dei protagonisti e via dicendo.

Queste donne hanno dei vissuti molto differenti sul piano sociale, generazionale e culturale e parlano lingue diverse, eppure le loro voci sembrano trasformarsi piano piano in una sola voce, in un unico idioma. Un percorso che cresce nella loro consapevolezza come nella sua stessa scrittura, fatta man mano di stili e linguaggi differenti: un lavoro che definisce una sorta di «romanzo nel romanzo»?

Nel libro le cose vanno esattamente così: le voci, intese come coscienze, delle donne si trasformano poco a poco in una sola voce, in una sola coscienza, pur mantenendo tra loro un dialogo costante. Le differenze linguistiche e culturali scompaiono.
Ho utilizzato generi narrativi e stili diversi per definire il temperamento dei miei personaggi: Rosa Imaculada ha una personalità drammatica, quindi la sua storia è raccontata attraverso un dialogo teatrale. Polina è goffa quando si trova in società, ha grandi difficoltà a esprimersi di fronte agli altri, quindi la sua vita è ritratta come un lungo monologo sul filosofo e mistico svedese Swedenborg che nel Settecento aveva coniato la teoria delle corrispondenze, per cui in tutte le cose esistenti ci sono tre significati uno dentro l’altro, naturale, spirituale e celestiale. E tutto è in un rapporto di corrispondenza con i propri omologhi. Da questo punto di vista, il metodo che ho seguito produce effettivamente «dei romanzi nel romanzo».

«Oneiron» ha ottenuto nel 2015 il prestigioso Finlandia Prize. Durante la premiazione lei ha però scelto di non parlare del libro, utilizzando invece quella vetrina ufficiale per denunciare il fatto che il governo di destra del suo paese sta «cercando di costruire una società classista» e di «minare la solidarietà tra i cittadini». Cosa sta accadendo a Helsinki?

Ciò che accade oggi in Finlandia, i problemi che ho voluto sollevare con quel mio intervento, rappresenta un drammatico fenomeno globale. L’esperienza della diseguaglianza non cessa di diffondersi, che si tratti della sfera dell’economia come di quella della cultura: è questo che spiega in gran parte la vittoria inattesa di Trump o l’espansione conosciuta delle idee neofasciste e neonaziste in tutta l’Europa. In Finlandia sta emergendo una tendenza inquietante: l’istruzione, che ha sempre rappresentato una delle caratteristiche di successo della nostra società, sta scivolando verso forme crescenti di disparità in base al redditto delle famiglie. Perciò io ho segnalato al governo che i tagli di spesa in questo settore sono decisamente gli ultimi da fare.

L’ingresso nell’esecutivo di una formazione della nuova destra come i Perussuomalaiset, il movimento dei Veri Finlandesi guidati dall’attuale ministro degli Esteri Timo Soini rischia di far precipitare ulteriormente le cose?

Il crescere delle diseguaglianze sociali offre un terreno favorevole ai populisti di destra che ne aproffittano per indicare dei facili capri espiatori, come i rifugiati, e per proporre delle semplificazioni pericolose. In questo clima mi sembra che molti finlandesi siano pronti ad abbandonarsi all’ostilità e al risentimento.