Un generale delle SS torturato a morte nelle retrovie di quella mutevole linea del fronte che divide ormai solo per pochi chilometri la ritirata dell’esercito del Terzo Reich dall’avanzata dell’Armata Rossa. Estate del 1943, nella Bielorussia occupata dai nazisti che cominciano a temere che la sconfitta appena patita a Stalingrado possa decidere dell’esito dell’intero conflitto, è la barbarie a scandire le giornate. Le stragi di ebrei e le esecuzioni sommarie di partigiani compiute dalle SS e dai collaborazionisti locali, sono talmente frequenti da essere ormai entrate a far parte del paesaggio: immagini di morte che si ripetono senza sosta, affiancando i pallidi colori della desolata pianura circostante e lo scuro delle foreste fitte di pericoli. Per Heinrich Hoffman, un ispettore di polizia che dovrebbe sovraintendere al rispetto della legge in questo regno dell’orrore governato dalle SS, non sarà facile indagare su quanto è realmente accaduto a quello che per la sua ferocia era noto come «il mostro di Minsk» e al carico d’oro, frutto delle razzie compiute contro gli ebrei della regione, che portava con sé quando è stato ucciso. Non sarà facile anche perché Hoffman, pur provandone intimamente orrore, non ha mai messo in discussione il sistema omicida in cui è immerso, l’ordine della morte che regna nell’intera Germania nazionalsocialista e che nella guerra trova la sua espressione più atroce. Ciò che scoprirà, cambierà per sempre la sua vita e le sue convinzioni.

Con Le zone morte (Longanesi, pp. 362, euro 16,40), Simon Pasternak ha costruito qualcosa di più di un noir anomalo, immerso nel clima terribile della guerra di sterminio attuata dai nazisti e in cui si muovono anche figure realmente esistite, come quelle di criminali delle SS del calibro di Oskar Dirlewanger e Curt von Gottberg: in gioco, in questa vicenda, ci sono le scelte e le responsabilità individuali di allora, quelle ombre sulla coscienza di molti che ancora pesano sull’identità e la memoria d’Europa.

Un tema che attraversa gran parte dei lavori di Pasternak, danese, classe 1971 che, in coppia con Christian Dorph, ha firmato nell’ultimo decennio una mezza dozzina di romanzi di ispirazione poliziesca che si misurano con le pagine più drammatiche e controverse della storia del Novecento; nel nostro paese era già uscito nel 2011 per Dalai L’orlo dell’abisso, un noir ambientato nella Copenaghen di fine anni Settanta, scossa dalle lotte sociali e dagli scandali politici, ma che rimandava al passato collaborazionista della Danimarca. Con l’ispettore Hoffmann, Pasternak ha inoltre creato un personaggio a metà strada tra storia e crime novel che ricorda altri celebri investigatori che operano negli anni del potere hitleriano, come Martin von Bora della scrittrice americana Ben Pastor, Eberhard Mock, che si deve al polacco Marek Krajewski e Bernie Gunther ideato dallo scozzese Philip Kerr. Finalista al Glass Key, il premio scandinavo per il miglior thriller, vinto in passato da Henning Mankell, Jo Nesbø e Stieg Larsson, lo scrittore e sceneggiatore danese è stato ospite della recente edizione del festival Pordenonelegge.

La storia del Novecento la interessa da tempo, ma come ha preso la decisione di scrivere un noir che vede i nazisti come protagonisti?

C’è stata una forte motivazione personale che mi ha spinto a scrivere questo libro, qualcosa che ha a che fare con la storia della mia famiglia. Nella cantina della casa dei miei genitori c’era una cassa che mi incuriosiva molto fin da quando ero piccolo: era piena degli effetti personali di un fratello della mia nonna materna che era nazista, si era arruolato nelle SS ed era morto sul fronte orientale. D’altra parte, però, proprio mia nonna materna si era sposata con un ebreo russo che conobbe le persecuzioni durante la guerra. Sentivo perciò una spinta ad indagare in modo più approfondito quel periodo e in particolare l’ambiente dei nazisti che avevano combattuto all’est.

I romanzi polizieschi in genere mettono in scena la lotta tra il bene e il male. In questo caso, tra i nazisti, il male è ovunque, no?

In effetti, secondo una definizione classica, il genere con cui mi cimento dovrebbe consistere nella caccia che un detective dà al male e a chi lo incarna. Invece, in questo caso, l’indagine che fa da sfondo al romanzo si svolge completamente immersa nel male stesso. Il protagonista, man mano che procede nell’indagine, trovandosi sempre più all’interno di questo sistema immorale che è stato il nazismo, finisce quasi per perdersi. Invece che essere battuto, il male diventa per certi versi parte anche di chi si propone di sconfiggerlo. In questo modo, alla fine, «i buoni» non vincono, ma forse almeno si interrogano su cosa resti ancora della loro umanità.

Hoffmann non è un SS ma è pur sempre un ingranaggio del sistema di potere nazista. Cosa potrà mai scoprire di sé nel corso dell’indagine?
Ho cercato di descrivere la realtà di quell’epoca attraverso un personaggio che non fosse né una vittima né un carnefice, quanto piuttosto uno spettatore per certi versi normale, se di normalità si può parlare in una simile situazione. Vale a dire qualcuno che si trovava ad essere suo malgrado testimone di tutto ciò che avveniva, una persona comune, senza storia. Quello che ho cercato di fare è non limitarmi a descrivere solo la malvagità delle persone, anche perché non sempre le persone che reputiamo tali lo sono al 100%, non hanno nient’altro dentro di sé. Il protagonista di Le zone morte cerca di fare qualcosa di buono, magari in un modo paradossale, ma ci prova. Ed è per questa via che scopre che può anche dire «no», rifiutandosi di agire per inerzia senza domandarsi cosa stia accadendo intorno a lui, come aveva fatto fino a quel momento. All’epoca ci sono state persone che si sono rifiutate di essere complici della violenza, che hanno detto «no» malgrado la grande pressione che pesava su di loro, malgrado tutti i condizionamenti che si possono immaginare.

A questo proposito, nel romanzo lei sembra sostenere una tesi forte, vale a dire che i tedeschi erano al corrente dell’Olocausto. È così?

Secondo me lo sapevano, come sapevano di tutti i massacri perpetrati nelle zone di occupazione nazista sul fronte orientale, cui partecipavano spesso anche semplici unità dell’esercito, non solo le SS. In ogni caso, anche coloro che forse non sapevano precisamente cosa stesse accadendo, si può dire che fossero perlomeno indifferenti rispetto alla sorte che sarebbe toccata in primo luogo agli ebrei. Sarebbe bastato un piccolo sforzo per informarsi e l’avrebbero saputo. Non c’era nulla di così segreto in quanto si stava preparando già prima che si aprissero le camere a gas.

All’inizio del libro, un comunicato delle SS annuncia che nelle «zone morte» della Bielorussia si è aperta «la caccia all’uomo». Ha scelto di evocare quell’orrore perché non le sembra poi così lontano?

Qualcosa del genere. Mi sono sempre interessato alla Seconda guerra mondiale perché la considero come uno dei capitoli fondamentali del Novecento, sia per quanto riguarda gli orrori che furono compiuti allora che per le scelte morali che di fronte a tali orrori si ebbe il coraggio o meno di assumere. Questa «questione morale» e la tragedia dell’Olocausto rappresentano temi decisivi del nostro tempo, la cui eco arriva fino ad oggi. Al punto che credo si debba continuare ad affrontare quanto accadde allora, perché non mi sembra che possiamo dirci ancora vaccinati rispetto ad un tale passato da poter affermare che non potrebbe tornare ad accadere.

Scrivendo questo romanzo ha cercato di riconciliarsi con la memoria di quel suo parente che ha combattuto nelle SS?

Credo sia impossibile. Non si può e non si deve neppure cercare di farlo. Però si può tentare di capire. Io ho scelto di scrivere questo romanzo proprio perché mi sono sempre interrogato su come gli individui avessero preso allora le loro decisioni di fronte all’orrore che montava. L’Olocausto è parte della nostra cultura, è un’ombra sempre presente in Europa. Per questo ritengo che sia importantissimo fare i conti con le nostre storie familiari, perché molti di noi hanno qualcuno che ha vissuto, in un modo o nell’altro, tutto ciò dalla parte dei carnefici. Ripeto, non si tratta di cercare di riconciliarsi con tutto ciò, ma di non smettere mai di porsi domande.