Da quando ha assunto l’incarico, a giugno, il controverso presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha tenuto fede alla sua fama di giustiziere, dando mano libera alla polizia nella «lotta al narcotraffico». L’Onu, vuole ora metterlo sotto inchiesta, ritenendolo responsabile della morte di 6.100 persone da quand’era sindaco (ha governato per oltre vent’anni l’importante città di Davao) a oggi. Lui ha risposto promettendo di «appiccare il fuoco all’Onu» e rivendicando la sovranità del suo paese. Giorni fa aveva annunciato di voler espellere le basi militari Usa, ieri ha ordinato di «chiudere tutte le società del gioco d’azzardo online perché molte hanno sedi all’estero e non sono tassabili nel paese».

Soprattutto, sembra seriamente disposto a realizzare un processo di pace con la guerriglia. I negoziati sono in corso in Norvegia. Di questo tema abbiamo discusso con Luis Jalandoni, leader dei negoziatori per il National Democratic Front Philippines (Ndfp), e con Coni Ledesma, dell’organizzazione femminista Makibaka, venuti a Roma per partecipare all’incontro nazionale di Caracas Chiama, la rete di solidarietà con il Venezuela socialista.

Che cos’è l’Ndfp?
Si tratta di un’alleanza composta da 18 strutture come Makibaka che rappresentano donne, sindacati, artisti, scienziati, operai, scrittori e anche i filippini esuli in altri paesi. Tra le più importanti e storiche, vi sono il Partito comunista filippino (Pcf), nato nel ’68 e il New People’s Army (Npa), del ’69. L’Ndfp nasce nel ’73, al tempo della grande mobilitazione popolare contro il dittatore Marcos. E’ un’alleanza considerata illegale dai vari regimi e dunque fuorilegge, ma ben nota alle masse delle 73 province in cui è radicata e in cui porta avanti obiettivi di emancipazione dei settori popolari tradizionalmente esclusi dalle decisioni e dai diritti: soprattutto i contadini, che rappresentano il 75% della popolazione. Le decisioni vengono prese da un organo collegiale, il Consiglio nazionale, in cui sono rappresentate tutte le strutture e in cui non c’è predominio della componente militare su quella politica o viceversa. La lotta armata viene considerata uno strumento indispensabile per arrivare a un cambiamento strutturale del paese intorno a un programma definito, un momento necessario per la liberazione. Tuttavia, vi sono organizzazioni di stampo progressista e antimperialista, che sostengono la nostra lotta, ma non praticano la guerriglia e che fanno opposizione legale (anche parlamentare) ai vari regimi che hanno preceduto Duterte, per esempio l’organizzazione delle donne Gabriela.

E qual è il vostro programma?
La formazione di una nuova democrazia che preveda l’assegnazione di terra ai contadini mediante una riforma agraria, la nazionalizzazione delle industrie, leggi ferree a protezione dell’ambiente, la promozione dei diritti economici e la piena partecipazione politica per i settori popolari, profonde riforme istituzionali, la cessazione degli accordi militari firmati con gli Stati uniti fino a oggi, l’ultimo è del 2014. Il ruolo delle donne è fondamentale, a tutti i livelli della vita politica e militare. Se vogliamo pensare a un modello, diciamo che il riferimento è ai vietcong che hanno liberato il loro paese, alla lotta del popolo cubano contro il dittatore Batista, alle Farc in Colombia, e come organizzazione delle masse, al modello bolivariano in Venezuela.

E con tutto questo, come fate a intendervi con Duterte, qual è il giudizio su di lui?
È un presidente antimperialista. Si è dichiarato il primo presidente di sinistra delle Filippine. È in buoni rapporti con il Partito comunista, non vuole le truppe Usa nel paese. Ha offerto 4 posti nel governo al Pcf, che però li ha rifiutati preferendo aspettare la soluzione politica. Nel frattempo, ha però indicato alcune personalità patriottiche adatte a entrare nel governo. In ogni caso, se Duterte non gode di buona stampa è soprattutto perché con le sue dichiarazioni di indipendenza si è scontrato con gli Usa e con le oligarchie interne, anche militari. Oggi l’Ndfp si considera alleato di Duterte, ma tiene ferma la sua agenda di dialogo. Uno dei punti principali è quello della liberazione dei prigionieri politici, che sono oltre 400. Dal processo di pace in Colombia ci differenzia il fatto che noi non consegneremo le armi dell’esercito del popolo. A gennaio, si svolge la terza tappa del processo di pace, che probabilmente realizzeremo in Italia, dove ci sono organizzazioni sociali e partiti della sinistra che lo sostengono e anche perché a gennaio a Oslo, si gela…

Qual è il vostro giudizio sugli attentati jihadisti nelle Filippine?
Il gruppo di Abu Sayyaf è un’emanazione della Cia. Con le altre organizzazioni musulmane combattenti ci sono buoni rapporti, qualcuno, come il Fronte islamico di liberazione moro è con noi nel processo di pace.