Il libro di Gianfranco Pasquino Partiti, istituzioni, democrazie (il mulino, pp. 456, euro 32) contiene una serie di saggi scritti dall’autore nel corso degli anni e selezionati in questa raccolta con due scopi strettamente legati tra loro. Il primo è offrire ai lettori un’approfondita analisi politologica dei temi di maggiore attualità come, tra gli altri, le riforme elettorali e istituzionali, le condizioni che rendono funzionate una democrazia rappresentativa, il legame tra partecipazione e mutamento dei partiti. Il secondo è mostrare come la scienza politica – disciplina pratica da Pasquino, allievo di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, sin dagli anni Sessanta – possa e debba proporsi come base scientifica per orientare nel modo più efficace possibile il mutamento politico-istituzionale.

La retorica propagandistica corrente nel nostro paese divide il mondo in riformatori e conservatori, dimenticandosi volutamente di rispondere alle domande fondamentali che queste categorie richiamano: cambiamento\conservazione per cosa? Per chi? L’articolata riflessione di Pasquino si confronta, correttamente, proprio con questi nodi. Innanzitutto, essa sembra basarsi sull’immagine di un paese caratterizzato, dal dopoguerra ad oggi, da una società civile che faticosamente costruisce un suo spazio di autonomia e protagonismo, rimanendo comunque strettamente condizionata da una società politica uscita dalla Resistenza come baricentro del sistema-paese. Da una fase di partitocrazia largamente egemonica e in grado, nonostante le tante storture clientelari e neo-corporative, di promuovere interessi generali e non solo particolari, si passa ad una fase, quella attuale, in cui la disarticolazione della politica e l’emergere di un personalismo mediatico-plebiscitario (che ha investito anche la sinistra) produce stallo del sistema e primato del guicciardiano «particulare».

Nella visione politologica di Pasquino, che si appoggia sempre al controllo scientifico e all’analisi comparata, il nodo fondamentale sta nel rapporto partiti-strutture istituzionali e nel deficit di cultura autenticamente democratica in cui si articola. I partiti si muovono ancora all’interno di un pluralismo polarizzato non più animato da partiti di massa e organizzati ma da strutture esplose, tutte centrate sul personalismo di leader e candidati scarsamente selezionati. Quanto alle istituzioni e alle regole, dalla lettura dei saggi che risalgono agli anni Ottanta e qui riproposti, risulta con chiarezza che la modifica del bicameralismo perfetto oppure la riforma elettorale, sono stati da allora temi di costante confronto politico in Italia. Senza che poi la classe politica – né quella della Prima né quella della cosìddetta Seconda Repubblica – arrivasse a soluzioni soddisfacenti, in grado cioè di rendere meglio funzionante – sul lato della governabilità, della partecipazione o della rappresentanza – il nostro sistema democratico.

Le posizioni di Pasquino a questo proposito sono note: da sempre sostenitore del doppio turno alla «francese», visto come un sistema elettorale in grado di realizzare un più alto livello di governabilità e di rappresentanza, date le condizioni storico-politiche italiane, lo studioso piemontese è per il superamento del bicameralismo perfetto e per la realizzazione di quelle più generali condizioni di sistema che aumentano la competizione partitica, ponendola su un piano di maggior rappresentatività e partecipazione.

Ma il libro di Gianfranco Pasquino non è un «istant book» né una raccolta nostalgica e auto-celebrativa di studi. Il suo interesse e il suo valore, anche per gli spunti critici che offre, è soprattutto un altro: la sua idea del rapporto scienze sociali-pratica politica. O, per dirla in un altro modo, tra intellettuale e classe politica. Un tema fondamentale nelle società contemporanee che guida e ispira questa raccolta, come dichiara esplicitamente l’autore sin dall’introduzione.

Gianfranco Pasquino si pone innanzitutto come fiero rappresentante della «terza cultura», per dirla con le parole di Kagan o di Lepienes, cioè di una serie di saperi che puntano ad interrogare la realtà storica e sociale attraverso il metodo scientifico: si tratta del programma con cui nascono le scienze sociali nel XIX secolo. Ma questa è solo una parte della verità: questa interrogazione scientifica, che pur non rifiuta il confronto e l’auto-esame rispetto ai giudizi di valore da cui parte e di cui non può fare a meno, ha senso solo se fornisce gli strumenti di una più efficace ingegneria sociale, politica o economica che sia.

Da Easton a Almond, da Sartori fino allo stesso Pasquino, la politologia, molto più della sociologia, si muove secondo un paradigma neo-positivistico e cerca la propria legittimazione non solo in sé ma per il contributo che vuole (o pretende) di offrire al governo razionale, empiricamente fondato, del mutamento politico e della cosa pubblica. Ecco dunque il nodo del rapporto tra l’intellettuale esponente della «terza cultura» e classe politica: il primo deve sostituirsi al secondo? Pasquino non lo pensa né potrebbe pensarlo dato che, nel mondo globale, solo la scienza economica esercita un reale imperialismo fondendosi con l’ideologia egemone (il neo-liberismo) e arrogandosi il diritto di rappresentare la Verità e sostituirsi alla democrazia. Più modestamente, la sua visione del politologo e, per estensione, del cultore di scienze sociali, è quello di essere «consigliere del Principe». E di mostrare, attraverso gli strumenti della ricerca empirica e dell’argomentazione razionale, tutta l’utilità che potrebbe avere questa operazione.

L’Italia di Renzi, con il suo anti-intellettualismo, si pone in continuità con quanto accaduto negli ultimi Venti anni: le acquisizioni scientifiche sono in buona parte marginalizzate dal dibattito pubblico e risultano impotenti di fronte alle esigenze di potere di una classe politica scarsamente in grado di promuovere l’interesse generale. Pasquino non è a rigore un neo-illuminista ma questo è un tema eminentemente illuminista. L’intellettuale rivendica un ruolo ma la sua rivendicazione si trasforma in un «grido nel deserto». La tecnocrazia non può sostituire la democrazia anche se di fatto, oggi, l’alleanza tra mercato ed esperti economici la limita sempre di più. La democrazia poi, non può tradursi in un’arena di promozione di un potere personale e predatorio. Il libro di Pasquino si pone oltre questi limiti e rimette al centro l’esigenza di una rinnovata alleanza tra democratici e sapere. Una strada che, oggi più di prima, vale la pena percorrere.