La famosa società liquida ci mette pochissimo a diventare solida se qualcuno decide di approdarvi. I confini sono una linea a presa rapida.
Chi viene in Europa scopre che andarsene da casa sua è una necessità, ma non un diritto. Sente, con triste meraviglia, com’è la sua vita di fronte ad una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Non sa di essere la versione in prosa vivente di una nota poesia italiana del Novecento.

L’Italia pullula di italie. Ce n’è per tutti i gusti. Crema, pistacchio, tuttifrutti. Una vicenda ha sempre il suo contrario a poca distanza. Dritto, rovescio. La paura di chi ha lasciato la sua terra si scontra con quella di chi sta sulla terra di qui. Sangue e terra, Blut und Boden, di nuovo.
Prendi il Piemonte. A Carmagnola, in provincia di Torino, un bracciante in nero, romeno, crolla a terra in una serra ortofrutticola a 50 gradi. Viene pulito, rivestito, trasportato a casa. Da morto. La magistratura indaga. A Garessio, provincia di Cuneo, una casa di accoglienza con diciotto giovani rifugiati viene nottetempo attaccata a pietrate con un tentativo di incendio. La magistratura indaga.

A Canelli, in provincia di Asti, una azienda agricola mette assieme colture bio e richiedenti asilo. Il rovescio degli episodi precedenti. Questo vorrei raccontare, anche se, forte della mia ignoranza, bio/non-bio mi suona un po’ enigmatico.

Ho detto azienda e avrei dovuto dire start up, per essere all’altezza dei tempi. Siamo in fase prova d’orchestra, ma sul campo contadini internazionali provenienti dall’Africa subsahariana trattano come si deve la terra. Mohammed, che parla più con le pause che con le parole, viene dal Mali. «Non c’è la guerra da voi», gli ha detto il giudice negandogli per la seconda volta il permesso di «soggiornare». Dovrà tornarsene in Africa se anche l’ultimo ricorso verrà bocciato. Qualcuno dovrà spiegare al giudice che esistono anche le guerre economiche e in Mali la moneta è il franco Cfa (Colonie Francesi d’Africa!) che segue obbligatoriamente i destini dell’euro. Se l’Italia, la Grecia, la Francia, ecc. sono messe in seria difficoltà dalla moneta europea, non dovrebbe essere difficile per il giudice capire la situazione del Paese subsahariano. Non dovrebbe essere particolarmente complicato neppure per noi.

Il ragazzo eritreo che raccoglie i peperoni restituisce un quadro agghiacciante dell’ex colonia italiana, l’Eritrea, e racconta la sua dolorosa odissea con una intonazione ritmica della voce che ricorda Reesom Haile, un grande poeta eritreo da poco scomparso. Altri ragazzi provenienti dal Senegal, Nigeria, Costa d’Avorio, dunque «moru» – cioè negri, come dispone l’arrogante linguistica locale – raccontano altre storie, archeologie felici e infelici dell’infanzia e del viaggio di attraversamento. Tra di loro parlano italiano, non sono nati emigranti e portano dentro di sé lingue e culture diverse oltre al dolore di essere persone non grate. Con loro lavora Davide Colleoni che, dopo esperienze professionali in Belgio e in California, fa un po’ da capofila, come esige il suo cognome. Tutti insieme però sono stati e continuano a riceve formazione sulla produzione agricola biologica, loro che biologici lo sono per esperienza diretta, avendo sperimentato la nuda vita, il puro bios.

A far partire il progetto hanno contribuito finanziamenti diversi, della Fondazione Social di Alessandria, dello Spras per minori non accompagnati, dell’Associazione italiana di agricoltura biologica e, naturalmente, la disponibilità di più di dieci ettari di terreno agricolo dati in comodato gratuito da una signora garbata e intelligente. Lo sguardo sospettoso dei vicini si è attutito, qualche terreno incolto da salvare dalla definitiva rovina si è anzi aggiunto al progetto dando così respiro alla produzione di generi di prima necessità, come la dignità delle persone, il loro benessere, le relazioni di fiducia, diversi tipi di ortaggi, cereali, tra cui il farro, nocciole e, con la imminente vendemmia, uva e vino. Nella vasta area langarola e dintorni, se domani bulgari, macedoni, romeni decidessero improvvisamente di tornarsene a casa, ciao vendemmia. Resterebbe anche inattivo, forse, il caporalato, che non è un’invenzione meridionale, come sa chi abbia letto «Il mondo dei vinti» di Nuto Revelli. Se poi fossero le donne badanti ad andarsene scoppierebbe una enorme bolla di sofferenza.

Siamo a Canelli, cioè Asti Spumante, Moscato d’Asti e altre preziosità enologiche, in un paesaggio che è patrimonio dell’umanità, come decreta l’Unesco, che deve aver l’abitudine allo sguardo alto dove effettivamente il mare verde di vigne collinari lo diresti dipinto da un artista fiorentino del rinascimento. Lo sguardo basso incappa invece nei mille capannoni disseminati a caso, nei centri commerciali a gogò, nella schiuma posturbana che caratterizza la mostrificazione del territorio italiano. Il patrimonio dell’umanità soddisfa vista e palato e sembra invece infastidire certe forze locali di bassa lega che hanno introiettato, in versione ventunesimo secolo, le leggi razziali del ’38 e quelle di Norimberga, e se ne fanno un vanto. «Ogni tempo ha il suo fascismo», scriveva Primo Levi nel 1974. Ma i ragazzi e la onlus che gestisce il progetto, Crescereinsieme di Acqui, hanno la testa dura e sono equipaggiati di non poca ironia.

La costituenda «azienda agricola sociale biologica» si chiamerà, e già si chiama, Maramao. A questo punto si aprono diverse porte. Una fa ingresso nella memoria, «Maramao, perché sei morto, pane e vin non ti mancava», canzone foxtrot del 1939, trio Lescano, suscettibilità dei gerarchi fascisti, suscettibilità del potere pontificio, due secoli fa, come racconta Gioacchino Belli o ancora Ninco Nanco, brigante lucano, o Fabrizio Maramaldo, capitano di ventura. Una canzonetta sconclusionata che è un insaccato misto di storia. Un’altra porta introduce alla contemporaneità: nella parlata piemontese sono stati a lungo indicati come «i maramao», gli immigrati meridionali di un tempo poi debitamente rimpiazzati con gli «extracomunitari», soprattutto «moru».

Uno scatto autoironico, dunque. A me piace attraversare ancora un’altra porta e fare maramao a chi si è asserragliato dentro l’incubo immigrazione e non vede che a Canelli si propone uno sguardo alto in cui i fuoriusciti africani sono strettamente connessi con i tormenti delle nostre esistenze: un lavoro degno, un cibo appropriato, un’agricoltura non siringata, un territorio e un paesaggio rigenerati, relazioni sociali non ottenebrate. Welfare lo si chiamava un tempo. Chiamiamolo patrimonio dell’umanità.