La vittoria di Trump viene presentata come il colpo mortale agli attuali assetti. C’è chi come Paul Krugman prevede «una recessione globale, a tempo indefinito», oppure come Romano Prodi che parla di «fine della globalizzazione».

Il fascino del risultato del tycoon, per restare in Italia, è confermato dai cartelli in stile elettorale a stelle e strisce al comizio di Salvini e persino dal Renzi che definisce il Sì al referendum costituzionale un voto «antisistema».

Segnali di deglobalizzazione erano in corso da tempo, ma da qui ad affermare che sarebbe in corso un salto di paradigma vero e proprio ce ne passa ancora. Una cosa è la spinta dal basso che proviene da una società occidentale in crisi, in cui le proprie classi medie sprofondano, spesso con rancore, e in cui le classi subalterne restano inchiodate a povertà e precarietà, un’altra è provare a comprendere gli effettivi spazi di manovra di un’opzione nazional-populista che riesce a rappresentare al meglio inquietudini diffuse.

Per porre fine al ciclo dell’economia globalizzata deve emergere un’alternativa politica ed economica insieme, cioè un progetto compiuto con artefici concreti.

L’impressione, per ora, è quella che non si vada oltre la raccolta del malessere e una sua rappresentazione. Tale capacità non va sottovalutata, considerata la dose di imprevedibilità che possiede, si tratta però di indagarne i limiti intrinseci.
Come conciliare gli assetti largamente dominanti, basati su delocalizzazioni e prezzi bassi che facilitano i consumi, con rimpatrio di produzioni, aumento dei costi, inflazione, in definitiva con il neoprotezionismo?

Tra Cina e Usa, ad esempio, l’interscambio equivale a 600 miliardi di dollari l’anno. Il reshoring, cioè il tentativo di rimpatriare quote di industria e di servizi, è in corso da alcuni anni ma non consente di intravvedere una sterzata complessiva.
Diversi sono stati i fattori che hanno reso possibile questa nuova tendenza, ma non tutti sono andati nella direzione di una soluzione dei mali causati dalla globalizzazione, semmai semplicemente verso un loro approfondimento attraverso le medesime logiche. Negli Usa un abbassamento dei costi dell’energia insieme a incentivi fiscali, bassi salari e ulteriore flessibilità, coniugati con un aumento dei costi per la manodopera cinese, hanno reso nuovamente appetibile il ritorno di parte dell’industria.

I dati però restano piuttosto trascurabili. Gli addetti del settore complessivamente si attestano intorno al 10-15% degli occupati. Sul versante monetario e finanziario le incongruenze aumentano. Politiche espansive sul piano fiscale preludono a un aumento dei tassi e del costo del debito, disavanzo commerciale, rafforzamento del dollaro e conseguente apprezzamento dei debiti globali contratti in questi anni di denaro facile. Le tensioni con gli emergenti si acuirebbero e si complicherebbe la capacità di indebitamento degli Usa.

Ma per tornare competitivi la moneta americana dovrebbe scendere di valore. Dunque dollaro forte o debole? Trump, nonostante si sia speso contro la finanza, sembra intenzionato a deregolamentare ulteriormente il settore, in stile classicamente liberista. Il ripiegamento nazionale e la contrazione del commercio internazionale sono scattati come riflessi condizionati ai limiti e fallimenti della globalizzazione, ma, come già per Brexit, l’accelerazione che vi potrebbe imprimere il nazional-populismo non sembra preoccupare particolarmente i mercati. Anzi, un progetto che in qualche misura accetta la sfida su questo terreno potrebbe circoscrivere i danni emersi in questi anni.

Seguendo lo storico Emilio Gentile che parla di «democrazia recitativa del popolo desovranizzato» sembrerebbe che l’opzione Trump interpreti al meglio il ruolo del leader di un’economia, che resta decisamente di mercato, costretta però a leccarsi diverse ferite.