Adesso che Beppe Grillo è tornato in campo e che da Genova e Milano supervisionano le scelte della giunta di Roma, per evitare nuovi scivoloni e cercare di porre un freno allo scontro tra correnti, torna il paradosso della legittimità giuridica del Movimento 5 Stelle e della sua anomala catena di comando.

La deputata Pd Monica Cirinnà ha presentato un ricorso di ineleggibilità al tribunale civile di Roma che poggia proprio sul fantomatico «contratto» che Virginia Raggi e i candidati consiglieri firmarono prima della vittoria elettorale. Il giudice si pronuncerà il 13 gennaio prossimo. Il documento firmato ha dubbio valore legale, è poco più una dichiarazione di principio. Si sostiene ad esempio che le nomine dei collaboratori debbano essere «preventivamente approvate dallo staff coordinato dai garanti del M5S».

I firmatari, sindaca e consiglieri, prendono «l’impegno etico di dimettersi» se condannati in primo grado di giudizio. La misura, e qui siamo al rischio che a Raggi arrivi un avviso di garanzia per abuso d’ufficio, scatta anche nel caso in cui si venga iscritti nel registro degli indagati e la maggioranza degli iscritti o i garanti lo richiedano «nel superiore interesse della preservazione dell’integrità del M5S».

Che si tratti di espulsioni, della famigerata sanzione pecuniaria di 150 mila euro, di «togliere il simbolo» oppure di costringere alle dimissioni, la vicenda politica e quella giuridica intrecciano e descrivono i contorni di una materia ingarbugliata. Per orientarsi, bisogna partire dal presupposto che di M5S ce ne sono due. Uno ruota attorno alla piattaforma telematica e risulta fondato nel 2009 con tanto di «Non Statuto». L’altro è stato costituito nel 2013, poche settimane prima delle elezioni politiche, quando Beppe Grillo assieme al nipote e avvocato Enrico e al suo commercialista si presentò davanti ad un notaio di Genova. Il primo è il M5S che raccoglie gli iscritti, il secondo funge da cabina di regia e da circa un anno possiede ufficialmente il brand pentastellato.

Il gioco delle due carte funziona fin quando, a Roma e Napoli, alcuni attivisti non presentano ricorso contro le espulsioni. Chi e come espelle, con quale legittimità e in base a quale regolamento? Si apre una voragine legale, uno scenario fumoso che adesso potrebbe calare anche sulle già poco chiare vicende dell’amministrazione romana.

«Il Movimento 5 Stelle trova difficoltà ad essere riconosciuto dalle leggi attuali perché la sua struttura e organizzazione è molto più innovativa e avanzata di quelle regolamentate dai codici», disse Grillo proclamando la validità della votazione online lunga un mese che non riuscì a raggiungere il quorum del 75 per cento di votanti richiesto dalla legge che disciplina le associazioni non riconosciute (ebbene sì, le toghe accostano i M5S agli odiati partiti). «Il Movimento non è questione di scartoffie da azzeccagarbugli», aggiunse Luigi Di Maio.

La procedura approvata dalla maggioranza dei 87213 votanti (su un totale di 135.023 iscritti) prevede che l’iscritto riceva da parte del fantomatico «staff» un’email tramite la quale gli vengono mosse delle contestazioni circa la sua condotta. Il destinatario ha dieci giorni per presentare le sue controdeduzioni al collegio dei probiviri (i cui membri sono Paola Carinelli, Nunzia Catalfo e Riccardo Fraccaro, cooptati dal vertice e solo in un secondo momento approvati online, secondo la logica del prendere o lasciare). Si rischia l’espulsione «se sottoposti a procedimento disciplinare si rilasciano dichiarazioni pubbliche relative al procedimento medesimo», se si è sospettati di compiere azioni «che avvantaggino gli altri partiti» e se non ci si comporta con «lealtà e correttezza» nei confronti degli altri iscritti.