Il ministro Giuliano Poletti non sembra aver afferrato la questione relativa alla gaffe sui dati dei contratti di lavoro e commenta: «C’è stato un errore umano nello scrivere una tabella. I dati che abbiamo modificato sono allineati a quelli che erano già stati rappresentati nei mesi precedenti e confermati dall’Inps confermano sostanzialmente che c’è stato un incremento importantissimo dei contratti stabili e il crollo delle collaborazioni».

Arrivano i commenti delle opposizioni: da Renato Brunetta, che chiede le dimissioni del Ministro del Lavoro e che le pubblicazioni statistiche del Ministero vengano affidate all’Istat (ma con il controllo del Parlamento), alle dichiarazioni di Grillo che dà del «bugiardo» a Poletti ma confonde gli occupati, su cui ha competenza l’Istat, con numero di contratti, di cui invece si occupano a via Veneto. Intanto, raggiunto al telefono, Giulio Marcon, Vicepresidente della Commissione Bilancio alla Camera (Sel), esprimendo preoccupazione per come il governo continua, attraverso una narrazione tossica della realtà, a fare propaganda sugli effetti (non positivi) delle riforme del mercato del lavoro, fa sapere che il caso sarà oggetto di un’interrogazione parlamentare.

Altrettanto duro Nicola Fratoianni, che chiede «risposte chiare e assunzione di responsabilità da Poletti».

La strumentalizzazione

Mentre la politica lentamente reagisce, ci si chiede come può un’istituzione governativa liquidare un’inesattezza così ragguardevole facendo leva sull’«errore umano», mentre approfitta dell’occasione per strumentalizzare le informazioni a proprio vantaggio.

Un servizio statistico non è per definizione un ufficio unipersonale in cui un singolo avvia e conclude i processi autonomamente, ma si compone di una pluralità di individui e, in teoria, di regole di funzionamento dei processi stessi, incluso il controllo e la verifica.

L’atteggiamento mostrato dal Ministro risulta quindi irrispettoso nei confronti dell’istituzione che rappresenta e in particolare del dipartimento studi sull’andamento del mercato del lavoro. Poletti sembra disconoscere l’importanza della credibilità istituzionale di fronte ai cittadini, che così facendo viene meno, specialmente su un tema, quello del lavoro, su cui si misura l’azione reale del governo, in un periodo in cui la disoccupazione attanaglia la vita di oltre tre milioni di lavoratori e delle loro famiglie. La credibilità di un’istituzione è cifra stessa della democrazia, quel valore di cui appare immune il governo, a partire proprio dalle riforme del mercato del lavoro, adottate con una delega che ha escluso di fatto la dialettica parlamentare.

Tuttavia, mentre l’errore (oltre un milione di contratti netti) viene declassato a una semplice svista, esso diventa opinione pubblica attraverso la stampa e la televisione ed oggetto di dichiarazioni trionfali da parte del governo. Il Ministro, senza neppure scusarsi o assumersi la responsabilità dell’accaduto, insiste sui numeri e sul buon risultato dovuto al JobsAct e agli sgravi alle imprese e in questi termini viene amplificato, ingannando i cittadini.

Usando tutta la complessità dei dati e delle diverse fonti dei dati, sappiamo che in sette mesi le riforme hanno prodotto solo 115mila contratti a tempo indeterminato, che a partire da marzo sono a tutele crescenti, cioè stabilmente precari. Quantitativamente è possibile esultare per questo dato? No, perché se da un lato i contratti non danno maggiori tutele ai lavoratori, dall’altro questi contratti non sono associati a nessun miglioramento del mercato del lavoro in termini occupazionali: il tasso di disoccupazione supera il 12% come spiega l’Istat nell’ultima nota relativa alle forze di lavoro.

Non c’è contraddizione tra questi due dati, nonostante misurino aspetti diversi di uno stesso fenomeno. Il ministero del lavoro si occupa di contratti, l’Istat di occupati e disoccupati. Ogni lavoratore può essere occupato, ma svolgere più lavori, quindi il numero di contratti che fanno riferimento a un’unica persona possono essere più di uno. Allo stesso tempo, se in un mese una persona ha lavorato con un contratto a tempo determinato di tre giorni (come avviene in oltre il 40% dei casi stando ai dati) può essere considerato occupato o disoccupato a seconda che l’intervista dell’Istat avvenga nella settimana relativa ai giorni lavorati o meno. Con grande probabilità sarà considerato disoccupato, coerentemente con la realtà.

Le variazioni da mese a mese

Ovviamente i dati tra un mese e l’altro possono subire piccole variazioni, dovute alle revisioni mensili, in teoria già incorporate nei dati consolidati pubblicati dal ministero. Ogni mese, il ministero dispone di due estrazioni dalle banche dati amministrative: la prima fatta a venti giorni dalla chiusura del mese e (dati provvisori), la seconda a quaranta giorni, entrambe rese poi pubbliche. È tra la prima e la seconda estrazione il momento in cui intervengono le revisioni: le imprese infatti possono comunicare la dinamica delle attivazioni, cessazioni e/o trasformazioni contrattuali con un margine di ritardo per cui queste movimentazioni nel sistema vengono registrate e verificate nei quaranta giorni.

Ma la differenza sostanziale sta nel fatto che i dati consolidati includono i rapporti netti di lavoro del settore pubblico, sono quindi non soltanto definitivi ma anche più completi in termini di settori economici. Da notare che per il mese di giugno, al Ministero hanno dimenticato di fornire il dato consolidato nonostante la sua pubblicazione fosse prevista, secondo il calendario interno, per il 7 agosto.

Basterebbe quindi procedere con un protocollo preciso sottoposto a verifica, rendendo giustizia a una funzione chiave quale la statistica ufficiale, altrimenti come è stato invocato più volte ieri sulla stampa, sarebbe meglio delegare a un istituto più autorevole l’elaborazione e la pubblicazione dei dati, evitando il più possibile che questi rimangano in balìa dei governi o comunque direttamente dipendenti da essi.