Fin dall’inizio della campagna elettorale più violenta e divisiva che gli Stati Uniti abbiano conosciuto nella loro storia recente, Thomas Frank aveva messo in guardia quanti sembravano pronti a liquidare la minaccia rappresentata dal tycoon newyorkese, prima vincitore a sorpresa delle primarie repubblicane e quindi della stessa corsa alla Casa Bianca, solo evocando le posizioni razziste del personaggio e il suo atteggiamento aggressivo.

Per questo storico, editorialista dell’Harper’s Magazine, apprezzato analista della politica americana e autore di uno studio che ha fatto scuola sul modo in cui la destra ha sedotto i lavoratori bianchi nel corso degli ultimi trent’anni (What’s the Matter With Kansas?, Henry Holt and Co., 2004), a sostenere l’ascesa di Donald Trump sono state infatti prima di tutto le ansie e le preoccupazioni di «millions of ordinary americans», tanti «piccoli bianchi» appartenenti alla working class come al ceto medio declassato e impoverito e vittima della crisi.

Un’analisi da cui conseguiva tutta la forza e le pervicacia del fenomeno a cui Trump ha dato voce. E questo anche perché, come afferma lo stesso Frank nel suo recente Listen, Liberal: Or, What Ever Happened to the Party of the People? (Metropolitan Books, 2016), il Partito democratico e Hillary Clinton non sono sembrati in alcun modo interessati a rivolgersi a questa fetta della popolazione statunitense.

Oltre 15 anni fa ha descritto come nel Kansas, dove lei è cresciuto, al pari di gran parte del paese, i repubblicani siano stati in grado di conquistare fin dalla fine degli anni Settanta una solida egemonia sull’elettorato popolare, spesso di tradizione democratica. Come è accaduto?

L’espediente utilizzato è ciò che negli Stati Uniti è andato sotto il nome di «guerre culturali», vale a dire l’evocare tutta una serie di temi, come la difesa della famiglia tradizionale, la lotta all’aborto, i «valori religiosi», un sottofondo di retorica razziale, con i quali contrastare i democratici accusati di essere i portatori di un’altro stile di vita, quello delle metropoli, del meticciato.

In realtà fin da allora mi sono reso conto che proprio i simpatizzanti dei movimenti ultraconservatori esprimevano per questa via anche un forte odio di classe: identificavano quelli che consideravano come gli «amorali» con le élite del paese. In altre parole sembravano esprimere una critica sociale travestita però da battaglia sui valori.

Il paradosso è che poi i Repubblicani hanno utilizzato questi milioni di voti dei lavoratori bianchi per condurre le loro politiche antisociali tutte volte a tagliare le tasse ai più ricchi e a ridurre il welfare…

In effetti la sfiducia e il rifiuto nei confronti dell’establishment presso le classi popolari bianche ha continuato a crescere visto che una volta abbandonato il Partito democratico per i Repubblicani fin dalla fine degli anni Settanta ci si è accorti che questi ultimi inseguivano solo il loro progetto di liberalizzazione dell’economia senza curarsi dei bisogni di questa parte dell’elettorato.

Poi però, con questa campagna elettorale le cose sono cambiate con la candidatura di Trump, che ha puntato tutto sulla possibilità di recuperare la rabbia e il sospetto cresciuti anche verso i vertici della destra.

Per conquistare i suoi supporter il miliardario ha spiegato, «avete ragione ad essere arrabbiati, il Partito repubblicano non ha fatto niente per voi, ma ora che ci sono io le cose cambieranno, bloccheremo i trattati sul commercio internazionale e riporteremo a casa i posti di lavoro». E lo stesso ha fatto per vincere le presidenziali.

Al netto delle proposte razziste di Trump o del fatto che molti dei suoi seguaci siano dei fanatici, questa volta i lavoratori bianchi hanno pensato di aver trovato il «loro» candidato?

Per certi versi credo proprio di si. Sulla scorta di un’inchiesta condotta dal sindacato Afl-Cio tra alcune migliaia di lavoratori bianchi della zona di Cleveland e Pittsburgh, spesso ex elettori democratici, emerge come le priorità per chi si diceva pronto a votare per Trump sono riassunti dalla promessa di «buoni» posti di lavoro. Centrali sono stati cioè i temi economici e, solo al terzo posto l’immigrazione. Allo stesso modo, molti dichiaravano di apprezzare il fatto che il candidato repubblicano aveva annunciato che avrebbe preso a pugni quei dirigenti industriali che hanno provocato o permesso la chiusura o il trasferimento all’estero di una fabbrica o di un’azienda.

Il vero problema, come si è visto con l’esito finale del voto, è che però tutto questo è avvenuto mentre, come spiega l’interrogativo che accompagna il suo ultimo libro, non si capisce bene che fine abbiano fatto fare i liberal al «partito del lavoro», cioè a quei democratici che hanno rappresentato per oltre un secolo il mondo della working class….

La risposta è molto semplice. Il Partito democratico ha deciso già da qualche decennio che non sarebbe più stato la forza politica che rappresentava i lavoratori, quanto piuttosto la classe media superiore, i laureati piuttosto che gli operai.

Hillary Clinton è una centrista interessata a difendere e a rappresentare ciò che viene definito come l’industria del sapere, la new economy e il libero scanbio. In una stagione segnata dalla crisi sociale come questa, i democratici si considerano come il partito dei vincitori, non quello dei perdenti. Alla convention democratica Hillary Clinton ha dichiarato «siamo anche il partito della classe operaia»; solo che è difficile crederle visto che alle sue spalle, seduti nei posti più cari della sala, c’erano i generosi donatori di Wall Street che l’hanno così caldamente sostenuta.

In questo senso l’onda di rabbia e di malcontento che ha portato Trump è finita per apparire insuperabile…

Si, ma anche il risultato di scelte molto precise fatta dalla nostra «sinistra». I democratici hanno voltato le spalle alle preoccupazioni della working class per diventare la tribuna dei professionisti illuminati.
Così, anche se Trump fosse stato alla fine sconfitto, con l’elezione di Hillary Clinton che cosa sarebbe potuto accadere? Non sarebbe semplicemente cambiato granché rispetto al recente passato. Certo, una presidenza democratica qualche cosa avrebbe fatto, ma niente di significativo per la working class.

Le diseguaglianze sociali avrebbero continuato a crescere, mentre la situazione economica avrebbe potuto migliorare leggermente, ma nell’insieme la situazione del paese non poteva evolvere in modo significativamente positivo per la working class. Così, un altro Trump, magari più accorto nei toni sarebbe apparso. Perciò, in qualche modo il disastro a cui assistiamo oggi si sarebbe prodotto di qui a quattro anni, con le prossime presidenziali. Ora, di fronte a questa situazione spaventosa c’è da chiedersi se qualcosa comincerà finalmente a cambiare tra i democratici come la candidatura di Bernie Sanders aveva fatto sperare alcuni mesi fa.