In Palestina la disabilità è uno stigma che si combatte prima con la presa di coscienza del disabile stesso e poi con la sensibilizzazione di una società che a causa dell’occupazione spesso tralascia di lavorare su se stessa. Ne abbiamo parlato con Luca Ricciardi, capo progetto dell’Ong italiana EducAid, impegnata nei Territori Occupati in attività con donne disabili e organizzazioni di persone disabili (Dpo).

Qual è il contesto in cui siete chiamati a lavorare?

In Palestina la disabilità è vista come una punizione, un problema che porta all’esclusione dalla comunità. Le famiglie con un membro disabile tendono a nasconderlo alla società, rendendo difficile anche quantificare il numero di persone con disabilità. Secondo il Centro di Statistica palestinese, la percentuale di disabili nei Territori Occupati è del 7%, un valore al ribasso: in ogni società, in ogni parte del mondo, la media si aggira intorno al 15%.

Peggiore è la situazione delle donne: se uomini disabili hanno maggiori occasioni di entrare nel mondo del lavoro e crearsi una famiglia, la donna è quasi completamente marginalizzata. Non potendo assolvere agli occhi della società al suo compito di madre e moglie, è considerata un peso: l’assenza di una rete sociale forte la rende totalmente dipendente dalla famiglia. Questa situazione si riscontra soprattutto nei villaggi più poveri e isolati dell’Area C (il 60% della Cisgiordania, sotto il controllo civile e militare israeliano, ndr), dove la disabilità è spesso il risultato di matrimoni tra consanguinei, e a Gaza, dove è dovuta anche agli attacchi militari israeliani.

Ciò che però accomuna questi casi è il modo di affrontare la disabilità: si agisce con un approccio medico e assistenzialistico, e non di inclusione sociale. Non esistono servizi pubblici: nonostante una legge del 1999 garantisca nella teoria ai disabili determinati diritti, nella pratica non viene implementata o applicata parzialmente. A ciò si aggiungono le difficoltà strutturali, soprattutto nel caso di minori: le scuole non sono preparate ad accogliere bambini disabili, mancano di competenze specifiche e di spazi, le classi sono sovraffollate e a volte si tenta di coprire il gap creando classi speciali che aumentano l’esclusione.
Questo resta il contesto, nonostante lo scorso aprile l’Autorità Palestinese abbia firmato la convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, dove l’approccio verso il disabile diventa sociale, ovvero si considera la disabilità il frutto delle barriere poste dalla società, quindi superabili attraverso il riconoscimento di diritti economici, di movimento, individuali.

Quali attività EducAid porta avanti in Cisgiordania e a Gaza?

EducAid punta ad un approccio diverso, basato sui diritti e il coinvolgimento diretto dei disabili. Con le organizzazioni locali vogliamo modificare le basi stesse delle attività: reclamare non un servizio, ma un diritto. Da anni la nostra Ong lavora a progetti di inclusione prima con bambini con disabilità intellettive e ora anche con donne disabili. Siamo parte della Rids, la Rete Italiana Disabilità e Sviluppo, insieme a Aifo, Fish e Dpi, che con il governo italiano hanno redatto un piano d’azione che prevede che ogni intervento di cooperazione abbia come tematica trasversale l’inclusione del disabile.

Alla base sta l’intenzione di coinvolgere direttamente il disabile nell’analisi dell’emarginazione sociale e quindi nell’individuazione degli strumenti per abbattere le barriere, superando uno dei limiti che in genere le Ong hanno: forniscono meri servizi, assistenzialismo, indebolendo la spinta verso la richiesta di diritti.

In che modo viene realizzato l’obiettivo di inclusione e partecipazione attiva?

Prima di tutto è necessario lavorare sulla presa di coscienza delle stesse donne disabili e delle loro famiglie rispetto ai propri diritti e alle proprie capacità. Vengono svolti training che sono condotti da disabili: a Gaza la formazione delle donne beneficiarie dei progetti è stata realizzata da Giampiero Griffo, Rita Barbieri e Pietro Barbuto, tre figure di riferimento del settore in Italia. Per le donne disabili di Gaza vedere persone nelle loro stesse condizioni lavorare, fare formazione, parlare di diritti e inclusione ha avuto un effetto travolgente: le ha spinte a condividere e ad accettare la sfida della partecipazione sociale.

Un altro esempio è la ricerca emancipatoria che stiamo conducendo a Gaza, un’esperienza del tutto nuovo: sono le donne disabili a portare avanti un’indagine sulla situazione nella Striscia, attraverso discussioni di gruppo, interviste e questionari su tre tematiche (rapporto tra madre e bambino disabile, accesso ai servizi sanitari e accesso al mercato del lavoro). La facilità con cui le partecipanti si sono aperte alle intervistatrici e alle moderatrici, anche loro disabili, dimostra il potenziale di successo di una simile iniziativa. Condividere la propria esperienza con chi la vive in prima persona è il punto di forza della ricerca, ancora in atto. I risultati che stanno emergendo sono legati ai fattori determinanti l’esclusione: il ruolo della famiglia, l’apertura della comunità di riferimento e la volontà della donna stessa a lottare per i propri diritti.

Il progetto “Include” di micro-finanziamento delle 34 donne disabili di Gaza può essere sostenuto con donazioni. Info nel sito web http://www.educaid.it/fundraising/.