A dispetto di una fortuna critica altalenante, Jack London resta uno degli scrittori statunitensi più letti al mondo, soprattutto grazie a romanzi di avventura come Zanna Bianca, Il richiamo della foresta, o Il lupo di mare, spesso catalogati come «letteratura per ragazzi» (destino peraltro a lungo condiviso con capolavori della letteratura americana come L’ultimo dei mohicani, Moby-Dick, Le avventure di Huckleberry Finn) ma che si inseriscono a pieno titolo in quell’importante stagione letteraria che va sotto il nome di «età del naturalismo» e che (per semplificare) si distaccherebbe dal realismo che la precede per l’importanza assegnata alle forze, naturali e sociali, arbitre dei destini umani.

London è certamente uno dei protagonisti del naturalismo americano, ma negli Stati Uniti ha sofferto del confronto con scrittori a lui contemporanei – Theodore Dreiser, Frank Norris, Stephen Crane – tradizionalmente considerati in possesso di mezzi artistici superiori. A partire dal 2010, però, gli estimatori di London hanno un argomento in più per apprezzarne non solo i meriti artistici, ma il ruolo di precursore in quella che oggi chiamiamo «cultura visuale».

Una selezione delle ben dodicimila foto scattate da London – perlopiù con una Kodak 3A, la macchina del formato cartolina – oggi conservate presso gli archivi della California State Parks Collection e della Huntington Library venne infatti pubblicata nel 2010, a cura di Jeanne Campbell Reesman, Sara S. Hodson e Philip Adam, nel volume Jack London, Photographer (University of Georgia Press): sebbene per la prima volta si trovasse a disposizione la prova di quanto fosse importante l’arte della fotografia per London, non si trattò di una «scoperta» straordinaria; che lo scrittore fosse un fotografo, autodidatta e tuttavia assai capace, era noto, infatti, perlomeno dal 1903.

La prima edizione del Popolo dell’abbisso, il reportage sulle sconvolgenti condizioni di vita dei miserrimi abitanti dell’East End londinese, comprendeva oltre cento scatti che contribuivano non poco al senso complessivo del testo; e anche La crociera dello Snark, del 1911, includeva foto scattate da London durante il viaggio che dalla California lo aveva portato sino ai Mari del Sud. Ora, un bel volume titolato Le strade dell’uomo Fotografie, diari e reportage (Contrasto, pp. 195, euro 19,90), ottimamente curato da Alessia Tagliaventi, con testi di London tradotti da Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, e un’appassionata introduzione di Davide Speranza, offre una versione italiana del Jack London, Photographer, per quanto priva dei saggi critici dell’originale e delle due sezioni dedicate alla rivoluzione messicana del 1914 e al viaggio verso Capo Horn a bordo del Dirigo.

Le quattro sezioni comprendono immagini dell’East End londinese, della guerra russo-giapponese del 1904 (seguita dallo scrittore come reporter per il «San Francisco Examiner»), quelle del terrificante terremoto di San Francisco del 1906 (cui London dedicò un articolo sul «Collier’s magazine»), e infine foto dalla crociera dello Snark, in maggioranza ritratti di nativi delle isole dei Mari del Sud. Ogni sezione, inoltre, propone estratti dalle opere di London, facendo così proficuamente dialogare testi e immagini.

Al di là del loro non trascurabile valore documentario, le foto di London hanno diversi meriti: innanzi tutto si configurano – come ci ricorda Speranza nell’introduzione, riprendendo la definizione dello stesso London – alla stregua di intensi «documenti umani» che correggono significativamente l’idea di un London ipnotizzato dalla figura nietzscheana della «bestia bionda». Se la fotografia del tempo, fosse di «denuncia sociale» oppure al servizio delle nascenti discipline etnografiche, sembrava comunque esaltare la distanza tra l’osservatore e l’osservato, spettacolarizzando o esotizzando il povero o il selvaggio; al contrario, gli scatti di London mettono l’accento su una umanità condivisa.

Che il soggetto sia una «serva dell’East End», i rifugiati coreani vittime della guerra, oppure un nativo di Guadalcanal, le foto di London non ne scalfiscono la dignità, che resta palpabile pur nella sofferenza che spesso attanaglia questi esseri umani. Persino nelle foto della devastazione di San Francisco, come nota la curatrice del volume, «London non cede alla sottile seduzione del fascino delle rovine, e si impegna piuttosto a comporre “uno stato delle cose”, esercitando su quei luoghi uno sguardo frontale e diretto».

Aggiungerei un’ulteriore osservazione, particolarmente pertinente alle foto scattate da London in Manciuria e nei mari del Sud, ma forse anche a quelle dell’East End. Più o meno a quegli anni risalgono molte foto degli «ultimi» indiani d’America in costumi tradizionali: troppo spesso vi appaiono sì fieri ma distanti. Rispetto a quei volti stoici, congelati dai fotografi in un passato irrecuperabile, i coreani e i polinesiani, e persino molti east enders si distinguono per un tratto forse non sufficientemente sottolineato: sorridono, o quanto meno accennano a un sorriso (si veda la foto della serva dell’East End, o quella bellissima di una madre di Samoa col suo bambino, o le immagini degli anziani dei villaggi coreani).

E sono soprattutto i loro sorrisi a stabilire un contatto con chi ha in mano la macchina fotografica, a creare un’intimità che, quali che fossero le idee di London in materia di «razze» umane (su questo argomento è assolutamente da leggere Jack London’s Racial Lives di Jeanne Campbell) rompono in modo netto tanto con la tradizione della fotografia etnografica come classificazione di «tipi» umani, quanto con il suo appiattimento a strumento del nascente turismo di massa.

Splendida, sotto ogni punto di vista, è la foto che ritrae quattro nativi di Nuku Hiva con al centro un grammofono azionato da uno di loro: se London insiste nel testo sulla devastazione che il colonialismo ha portato nell’isola, qui ci dispensa un commento ironico sul rapporto tra i «primitivi» e la modernità intese come tutt’altro che incompatibili.

Molte tra le foto di London sono attentamente «costruite», ma la tesi che lo scrittore sia tra i pionieri del photojournalism novecentesco è vera solo in parte. Già nelPopolo degli abbissi, come ha osservato Owen Clayton in una recensione apparsa nel 2011 su «Early Popular Visual Culture», molte foto sono «messe in scena»: non solo quella delle due ragazze ubriache che si picchiano, con le mani che invece di tirare i capelli sono poggiate sulle rispettive teste, ma certamente quella che ritrae un poliziotto che illumina la faccia di un vagabondo sdraiato a dormire, guarda caso, conto un muro dove ha sede il settimanale «Truth» (Verità).

Un recensore dell’epoca ipotizzò che il vagabondo fosse London stesso, e a guardar bene la foto non mi sentirei di escluderlo. Il fatto che gli scatti siano spesso meno «realistici» e più «sperimentali» di quanto è stato sin qui riconosciuto nulla toglie alla loro importanza e al loro valore; è vero semmai il contrario.

Pur contribuendo senz’altro alla nascita e al consolidamento di una fotografia realista come strumento del giornalismo moderno, London intuisce al tempo stesso l’importanza che la retorica delle immagini andrà assumendo nella cultura visuale del suo e del nostro tempo. E anche questo è un importante merito del Jack London fotografo e narratore.