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Forse è un cerchio che si chiude. Forse si tratta di un nuovo inizio. Sicuramente il nuovo romanzo di Ugo Cornia rappresenta una tappa importante, e un po’ spiazzante per il lettore, nel percorso evolutivo dello scrittore. Intitolato semplicemente Buchi, uscito di recente per Feltrinelli (pp. 93, euro 10), questo piccolo libro sembra quasi chiudere un cerchio perché nelle tematiche affrontate si richiama al romanzo d’esordio di Cornia, Sulla felicità in eccesso uscito oltre quindici anni fa. Anche in questo caso, infatti, a farla da padrone sulla pagina sono quasi sempre i morti, quelle potenze infere o supere – ma in fondo che importa? – che vivono nel loro rapporto con il narratore e con la narrazione e da cui scaturisce il racconto, la letteratura. Centrali ancora una volta le figure dei genitori che, con la madre, aprono e, con il padre, chiudono il romanzo. A loro però si affiancano tanti altri, parenti e amici, soprattutto di Guzzano – luogo centrale nella geografia narrativa dello scrittore modenese – prima fra tutti l’amatissima zia Bruna, morta per ultima, nel 2012, ai cui racconti Cornia ha dedicato tempo addietro un intero romanzo.

A partire da queste presenze, si sviluppa il racconto. Un racconto che spesso, quasi proustianamente, nasce dal contatto con un oggetto. Così, basta aprire il cassetto di una scrivania oppure le pagine di una vecchia edizione dell’Oblomov perché si scatenino le potenze infere, la memoria si metta in moto e si avvii la narrazione. Una narrazione che, come sempre in Cornia, non è mai lineare, ma procede per «slateramenti», ovvero scantonamenti, percorsi a zig zag quasi. Del resto: «Slaterare, slaterare sempre se c’è almeno un buco, traversa il buco e slatera se puoi. Dritto ti stampi».
Uno slaterare che può portare anche, come nei poemi epici, a una vera e propria discesa nell’Ade. O in un aldilà vuoto, fatto solo di tombe. «Come se Dante fosse andato giù per una scarpata e non c’era niente, soltanto la scarpata».

E un raccontare che si avvale della solita, magistrale scrittura, raffinatissima, ricca di figure retoriche eppure a prima vista così semplice, piana. Come se stessi ascoltando il racconto di un amico. Una scrittura, uno stile capace, soprattutto, di farti sentire emozioni e sensazioni, di comunicarti quel fondo di norma indicibile quasi, che ti fa sentire come se qualcosa risuonasse dentro di te. Che ti fa riflettere, pensare, al di là e allo stesso tempo all’interno di quello che viene narrato. Andando oltre e dentro l’angoscia, la malinconia, il vuoto presenti in questo libro allo stesso modo con cui si oltrepassavano la comicità e il riso caratteristici dei romanzi precedenti.

«Chiusa la storia. Chiuso tutto». Con queste parole si conclude Buchi. Tutto è stato «smantellato». Tutti sono andati via. Di tanti sono rimasti praticamente solo Ugo, il narratore, e la sorella. Eppure «altri smantellamenti ci saranno ancora, nell’universale e continuo smantellamento di tutte le cose». Non solo. Nella «specie di post-scriptum» alla fine del romanzo, Cornia inanella una serie di indizi, a partire dalla presenza ripetuta e sintomatica del numero 6, volti a confermare comunque la possibile presenza dei fantasmi, di quelle presenze di cui da sempre si è nutrita la letteratura.