È uno strabismo la giovinezza, mito letterario fuori dal tempo, e illusione fragilissima e dolorosa che prende forma nel rimpianto dei giorni, del corpo, della pelle che cede, della mente che va via, degli occhi del mondo che guardano altrove. Eppure «i giovani», categoria divenuta consumo nella modernità, sono la bandiera di politici e opinionisti di destra e di sinistra sembrano non essere consapevoli dello stato di grazia dell’età, come se la passione per la giovinezza sia più il fantasma della vecchiaia, la proiezione dei suoi rimpianti, di un passato che diviene futuro.

In questo luogo eterno dell’immaginario si immerge Paolo Sorrentino sin dal titolo del suo nuovo film, Youth, cast e produzione internazionali, protagonisti due grandi attori come Michael Caine e Harvey Keitel insieme a Rachel Weisz, Paul Dano e un cameo di Jane Fonda,nei panni della diva sul viale del tramonto che al cinema d’autore preferisce un ruolo da nonna nelle serie tv.

Più che un film «sulla» gioventù Youth appare come un film sulla vecchiaia, o meglio una nuova variazione per sintassi e movimento narrativo dell’Oscar Grande bellezza: lì il chiacchiericcio della high society romana, versione contemporanea de La Dolce vita, qui l’omaggio a 8 e ½, lì l’arte barocca qui la composizione, candidandosi alla Palma (ma la stampa francese lo ha detestato) e ai prossimi Oscar.

Con La Grande bellezza, Youth condivide anche la visione di un mondo riflesso negli occhi (maschili) distaccati del suo protagonista, compositore e direttore d’orchestra di fama mondiale, alla soglia degli ottanta anni, malato di apatia cosa che l’ha spinto a ritirarsi dal mondo. Giovinezza giovinezza, declamava la canzone di era fascista alludendo più che alla natura sentimentale alla «potenza» di questa età dell’uomo, ed è la stessa ossessione dei personaggi sorrentiniani, giovani e vecchi che siano. Essere bravi a letto, per esempio, ragione che ha spinto il marito (terribile) a lasciare l’insulsa figlia di Caine, (Weisz) per una cantante da videoclip assatanata. Lei dice al padre: «Anche io sono brava a letto», e non potrebbe essere altrimenti, l’uomo vanta infatti una certa fama di seduttore…

Più che l’età giovane, dunque, uno stato virile, forse difficile per degli ottantenni come i due amici della storia, almeno in senso letterale complicato dai problemi di prostata. Ma non è questo il punto: si tratta infatti di una potenza che si declina nell’arte, e soprattutto nell’ego, la sfida che uno vince e l’altro perde, questione di donne. Come sempre.

Fred (Caine) il musicista odia gli intellettuali, glielo ha insegnato Stravinskij, e quando è scomparsa la moglie soprano, amatissima e musa anche se tradita e sempre messa nell’ombra, si è ritirato. Non accetta nemmeno l’invito della Regina Elisabetta che lo vuole sul podio a dirigere la sua composizione più famosa, La canzone semplice, scritta per la moglie che lui non sopporta eseguita da altre. In silenzio dirige le mucche, e la voce della natura anche se quando corregge il gomito del giovane violinista si accorge che oggi mettere ordine al caos non può funzionare.

Nel resort di lusso in Svizzera dalle reminiscenze wedekindiane (ma molto distante dal Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, più un sanatorio reso beauty farm e ritiro miliardario) divide il suo tempo insieme all’amico di una vita, Mick (Keitel) che sta scrivendo un nuovo film insieme a dei giovani sceneggiatori, ma senza una diva non gli daranno i soldi condannato dal mercato che non lo vuole più. «Sono orrendi, lascia intatto il ricordo dei tuoi film del passato» gli grida in faccia la sua attrice feticcio (Fonda) mentre lo lascia per la serialità, salvandolo a suo avviso da un nuovo cattivo film, il titolo era «L’ultimo giorno di vita». Profetico.

Un giovane attore (Dano) come il Michael Keaton di Birdman si sente soffocato dal suo ruolo di robot in un blockbuster, legge Novalis perché a Hollywood non tutti gli attori scopano le modelle e si drogano. La figlia di Fred (Weisz) scopre l’eccitazione dell’altezza, paura e libertà che sono la stessa cosa. Mentre i fan assediano quel luogo di lusso e di pace inseguendo el Pibe, così grasso che non riesce nemmeno a muoversi…

Sorrentino ha anche lui una fascinazione per la vertigine di cui riempie le sue immagini sontuose ma dalle superfici lisce e compiaciute: corpi immersi nelle piscine, le danze delle mucche, il profilo delle Alpi, la carne tremula e quella plastificata, nel prisma delle illusioni anche Miss Universo ha le labbra rifatte e con le tette sfida le leggi di gravità.

Cosa racconta Youth? Del romanticismo di una stazione termale con le sue malinconie fragili di vite sospese. Della vecchiaia indigesta al mondo, in un sistema che non permette ai registi di girare più i loro film perché fuori moda – il film è dedicato a Francesco Rosi, rimanendo al cinema italiano come non pensare al j’accuse di Fellini ma anche di questo non si può fare un dogma.

O ancora della società dello spettacolo senza Debord, nei luoghi comuni Europa contro America/Hollywood, mercato contro autori, ecc. Volendo tutto questo e niente, nei suoi vuoti troppo pieni che snocciolano il Novecento, nazismo e cura del corpo, il fantasma del Grande Cinema hollywoodiano e la serialità televisiva, la musica contemporanea poco nonostante la lezione stravinskijana, invece docilmente ammaestrata per confezionare un’«opera mondo», almeno questa l’ambizione, da lui anche scritta, fin troppo programmatica nel suo svolgimento. Vero e falso, finzione e realtà, litigano i giovani sceneggiatori.

Sorrentino si pone al di sopra, (Malick che lo si ami o meno sa modulare il movimento apparente di un flusso) sul podio come il direttore d’orchestra, vedi il regista se il personaggio di Caine è l’«alter ego» sorrentiniano, il suo punto di vista è il virtuosismo – ma: come in La grande bellezza era evidente che non si era mai interrogato su come filmare l’arte, stavolta non ha pensato a come si filma la musica.

La leggerezza è una qualità molto perversa chiosa il musicista Fred. Sorrentino non sembra ascoltarlo: questa sua incursione nel maschile, di una giovinezza che appartiene all’uomo, celebra un ego gonfio come le sue immagini mai capaci di semplicità, che può essere molto seduttiva, svuotate di sentimento: nessuna finzione, nessuna grande verità.

E quelle lezioni di filosofia che calano dall’alto, che pretendono di castigare il mondo, dette ma non rese sostanza di cinema, finiscono per somigliare ai bigliettini nei dolcetti cinesi.