Da bambina, Maria Lai aveva imparato a camminare sospesa nel vuoto insieme a un gruppo di zingari acrobati che si erano fermati nel paese dove viveva per lunghi periodi con gli zii. Solitaria, non frequentava le elementari, passava i pomeriggi a disegnare col carbone. Fino al giorno in cui arrivarono i gitani. Le piaceva molto volteggiare guardando il cielo terso della sua terra, tanto che quando i giocolieri decisero di partire, lei si unì a loro, accucciandosi dentro il carrozzone che andava via.
Fu quella solo la prima delle sue fughe: nel corso della vita ne seguirono molte altre perché, diceva, bisogna sempre mantenere la giusta distanza dagli altri per rimanere se stessi («niente mi avrebbe distolto dal mio pozzo»). È una disciplina quella della distanza da esercitare quotidianamente, senza distrazioni, soprattutto se si è donna, nata nei primi decenni del secolo scorso (1919), con il dèmone della curiosità che ti brucia dentro, in un paese aspro come la Sardegna, terra atavica di pastori e tessitrici, luogo un po’ magico dove le janas, le fate delle grotte, aiutano a costruire le trame delle cuciture di tappeti e di stoffe con il loro ordito che mescola rigore geometrico e libera immaginazione. Un luogo dove le caprette pascolavano inerpicandosi per sentieri rocciosi e adesso – grazie a Maria Lai – camminano composte in fila indiana, «cucite» con il ferro lungo le mura di cemento che contengono il terreno franoso.

Nel paese delle janas

«Aveva ragione mio padre a dire che ero una capretta ansiosa di precipizi», raccontava divertita nelle interviste. Eppure quell’immagine di estrema semplicità non la disturbò mai; anzi, la fece sua, ne estrasse il nettare simbolico («è la fantasia»), la riprodusse con alcuni segni essenziali – un rettangolo e un triangolo – in cui la lezione di un maestro ruvido e per nulla incoraggiante come Arturo Martini, seguito per tre anni a Venezia, non venne mai meno. Poi, la portò ovunque ce ne fosse bisogno e ne regalò il copyright alle donne tessitrici così che la potessero far rivivere ogni giorno nei loro ricami. L’ha disegnata anche sul dorso della montagna, ma quella capretta bianca ha una personalità particolare, viene da storie lontane, è rotolata nelle parole dello scrittore amico Giuseppe Dessì e poi si è rimodellata fra le sue mani.
A Ulassai, lì dove un tempo c’era la stazione del treno e oggi c’è un piccolo museo per l’arte, tira un gran vento che scompiglia le fronde degli alberi e fa ondeggiare la scultura dedicata a Antonio Gramsci. Maria Lai volle lasciare un suo contributo dedicato allo scrittore fiabesco che dal carcere mandava lettere a Giulia perché leggesse la storia della montagna e del topolino al figlio Delio, costretto a crescere con il padre lontano: una grande struttura in ferro, filiforme e nodosa, come filiforme e nodoso era il corpo dell’artista, al cui vertice troviamo arrampicati due bambini. Dovranno piantare un albero per far placare la natura ed evitare frane rovinose. E proprio lì, nel suo luogo natìo, in quel borgo abbarbicato in mezzo a una gola, dove il dio del vento non smetteva mai di soffiare e dove la comunità viveva sempre sotto la minaccia di temporali catastrofici, Lai ha agito come una jana, una fata: ha regalato quella visionaria performance collettiva, Legarsi alla montagna (1981), donando una nuova ripartenza a tutti, ad anziani e bambini, scacciando i fantasmi del passato.
La leggenda racconta di una bambina che, come Cappuccetto Rosso, era stata mandata a portare il pane ai pastori. Di fronte all’avvicinarsi di un brutto temporale, questi si erano rifugiati nelle grotte con il gregge. A un certo punto, la piccola vide un nastro celeste attraversare il cielo e presa da stupore, lo seguì correndo. I pastori non ne vollero sapere di abbandonare il loro rifugio e quando la parete della montagna venne giù, rimasero sepolti fra i sassi. Il nastro, con la sua bellezza effimera, proprio come l’arte, aveva indicato una direzione di salvezza.
Maria Lai, chiamata per disegnare un monumento ai caduti, rifiutò la commissione pubblica e propose invece la sua azione: un nastro (26 chilometri di stoffa di jeans) avrebbe legato le case e i loro abitanti uno a uno fino ad arrivare alla montagna. Per realizzare l’impresa, bisognava parlare con le persone e convincerle a superare antichissimi rancori, inimicizie radicate negli anni. Lei ci riuscì, inventando un linguaggio del nastro: sarebbe passato dritto dove le famiglie non si parlavano, annodato dove vi fosse condivisione di affetti, con un pane da festa appeso se vi fosse amore. Nessuno, affacciandosi fra quelle rocce sarde, lassù, dimenticò più quella giornata speciale che finì con balli e canti a notte fonda, venne filmata da Tonino Casula e rimase impressa nella pellicola di Piero Berengo Gardin.

Dalle trame alle mappe

Ricucire il mondo – le tre rassegne in omaggio all’artista che impegnano la sede del Palazzo di Città a Cagliari, il Museo Man di Nuoro e Ulassai – rappresentano un percorso espositivo che rispetta, concettualmente, quel «legarsi» l’uno all’altro voluto fortemente da Maria Lai. Sono tappe di una retrospettiva (visitabili fino al 2 novembre prossimo) che costringono a uno spostamento reale, a un pellegrinaggio laico, chiamando lo spettatore a una attiva partecipazione. Lo immergono in una molteplicità di universi – letterari, poetici, infantili, fiabeschi, teatrali, geografici, cosmici – e non è così scontato che alla fine ne esca fuori, «a riveder le stelle». Potrebbe rimanere impigliato nei telai che disseminano trame, nelle mappe che fanno svanire i confini degli stati, nelle lavagne con le scritte lavate dall’acqua del mare, fra le pagine di leggende d’amore e morte, fino a perdersi in nostalgie lancinanti in quel «cimitero di bambini», distesa di ex voto realizzati con il pane, rito consolatorio in onore di chi non c’è più e insieme il riattivarsi di una tradizione arcaica. Una ragnatela è anche quella che avvolge le sedi stesse e alcune opere, un’installazione ideata dall’artista Claudia Losi con lo stilista Antonio Marras.
Con più di trecento opere – reperite fra collezioni pubbliche e private – e un numero assai maggiore in corso di catalogazione, si va a comporre un mosaico creativo che precedentemente lamentava molti pezzi mancanti. Oggi, come ha spiegato Barbara Casavecchia, curatrice insieme al direttore del Man Lorenzo Giusti della mostra di Nuoro, l’attività teatrale e didattica dell’artista ha ritrovato alcuni «fili» dispersi e completato la sua narrazione (pure con un breve video di animazione che Lai aveva realizzato con i piccoli studenti).
Così se a Cagliari, sotto la cura di Anna Maria Montaldo (direttrice dei Musei Civici), va in scena la prima parte di una produzione ricchissima – dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, compreso un corpus di disegni sorprendente per la modernità di un segno che non concede nulla al décor e che nel suo minimalismo costruttivista molto ricorda quello delle avanguardie russe – a Nuoro invece ci si lascia cullare dall’affabulazione magica dei libri «scuciti», dai variopinti varani pronti a proiettare ombre caleidoscopiche sulle finestre, dalle scritture per iniziati, dal gioco dell’oca e da quello delle carte, da oggetti banali rivisitati attraverso la manualità ludica dell’artista (che spesso lavorava con la sorella e la nipote Maria Sofia Pisu, «mentre cucivamo, dovevamo pensare che stavamo scrivendo a qualcuno»).

Il ritmo della poesia

Qui e lì, a Cagliari e a Nuoro, ma anche nel lavatoio di Ulassai, sfilano i grandi telai, seguiti dalle meravigliose geografie, mondi da esplorare liberamente, che intrecciano terra e cielo, astri e sassi. Ovunque, in tutte le sedi espositive, aleggiano le sue figure di riferimento, affettive e intellettuali, quelle a cui rimase legata per l’intera esistenza: Salvatore Cambosu, ritratto più volte, maestro e poeta che le insegnò a leggere le parole attraverso il ritmo («il mio sogno è che all’ingresso di ogni museo e scuola possa esserci la scritta ’non importa se non capisci, segui il ritmo’», dirà Lai anni dopo), la spinse a ripartire dalla Sardegna, dopo la guerra, quando ormai i viaggi di istruzione erano alle sue spalle e tutto le sembrava perduto; e il vicino di casa e sodale, lo scrittore Giuseppe Dessì, che la rimproverava perché «faceva scarabocchi», mentre in realtà la appoggiò incondizionatamente e collaborò con lei, con allegria e erudizione.
L’oralità e la scrittura sono le due stelle polari che hanno guidato l’arte di Maria Lai («da piccola, guardavo mia nonna che rammendava lenzuola, a me sembravano scritture e quando lei mi chiedeva scherzosamente di leggerle, io inventavo storie»). Il punto di saldatura è nel gioco e quando avviene il miracolo, scendono in campo temi ancestrali, reminiscenze junghiane e letture profonde. Perché, a distanza di un anno dalla sua scomparsa (Maria Lai se n’è andata a 93 anni nell’aprile del 2013), si può tranquillamente scavare nel suo alfabeto originale e scoprire, una volta per tutte, che in lei non c’era nulla di naïf. L’ossatura intellettuale di Maria Lai era robustissima, nutrita anno dopo anno con frequentazioni di letterati, architetti, artisti e, perché no, bambini.
Anche la «preistoricità» delle figure prese in prestito dalla sua terra, era un lascito «avvertito», un’eredità fortunata. Bastava saperla cogliere per il verso giusto.