Spendere 114 miliardi di fondi europei in un piano per lo sviluppo e il lavoro: questo è l’unico Jobs act possibile per Renzi. Il fallimento dei governi Letta, Monti e Berlusconi, è nei numeri: 28,8 miliardi non spesi nel periodo 2007/2013; altri 85 miliardi (del nuovo ciclo 2014-2020) che non possiamo usare perché l’Italia non ha ancora concluso la programmazione con Bruxelles. L’inadeguatezza della nostra classe dirigente è tutta qui: tutti invocano la crescita, eppure l’Italia non investe le risorse comunitarie, l’unico strumento contro la crisi.

Nei prossimi mesi domande cruciali troveranno una risposta: i fondi europei saranno buttati nel cuneo fiscale (Roberto Perotti giovedì 27 febbraio sul Sole 24ore) e tolti al Sud? I Comuni (guidati da Fassino, Marino, Nardella e De Magistris) gestiranno i fondi Ue o vincerà l’opposizione delle regioni guidate da Errani? La cancelliera Merkel ci commissarierà anche sulla spesa comunitaria? Camusso, Angeletti, Bonanni e Squinzi avranno una loro proposta per creare lavoro e sviluppo in Italia?

Renzi, dopo aver definito allucinante il tasso di disoccupazione, dovrebbe rottamare la classe politica e i dirigenti pubblici che hanno speso poco e male i fondi europei; un governo adeguato userebbe i fondi Ue in un piano che rilanci il nostro sistema produttivo e crei vero lavoro.

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I nodi dirimenti sono 6:

114 mld: risorse a disposizione

Nei prossimi due anni si sovrapporranno due canali finanziari. Primo: il residuo della programmazione 2007-2013: 28,89 miliardi di euro non spesi al 31 dicembre 2013 (secondo i dati pubblicati sui siti dei ministeri della Coesione Territoriale e delle Politiche Agricole) così suddivisi: i rimanenti 22,89 miliardi dei programmi cofinanziati dal Fesr (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) e dal Fse (Fondo Sociale Europeo); i rimanenti 6 miliardi di euro dei piani cofinanziati dal Feasr (Fondo Europeo Agricolo di Sviluppo Rurale). Nel 2007-2013 l’Italia ha speso solo 37 miliardi dei 66 miliardi di euro a disposizione: tale incapacità dei predecessori dà a Renzi un’opportunità; poiché Bruxelles (grazie alla deroga del meccanismo N+2) concede altri due anni per spendere, il governo può dimostrare di essere capace e adeguato alla crisi, può usare tutti i 28,89 miliardi di euro entro dicembre 2015 ed evitare il disimpegno automatico del cofinanziamento europeo.

Secondo: gli 85 miliardi del periodo 2014-2020: circa 64,5 miliardi di euro dei programmi cofinanziati da Fesr e Fse; circa 20,8 miliardi dei programmi cofinanziati dal Feasr.

Il flop degli incentivi automatici

Il problema principale della programmazione dei fondi europei è l’assenza di un progetto paese. Purtroppo la politica industriale si è ridotta agli incentivi automatici alle aziende per l’occupazione, per il trasferimento tecnologico e per la ricerca: nel primo caso, finito l’incentivo, i nuovi occupati sono stati licenziati, nel secondo, le imprese hanno comprato beni strumentali prodotti all’estero (dando commesse a imprese straniere e quindi lavoro a lavoratori stranieri con risorse italiane), nel terzo le imprese spesso hanno assunto con un contratto (poco costoso) da ricercatore un lavoratore che ricercatore non era. Chi ha cercato di cambiare questo paradigma si è trovato di fronte un muro.

Durante l’esame in Senato della Legge Finanziaria 2008, Sergio Ferrari e io scrivemmo un emendamento (poi presentato dai senatori Salvi e Russo Spena) che cancellava gli incentivi automatici sulla ricerca per il Sud e istituiva un programma nazionale di ricerca e reindustrializzazione per selezionare le filiere produttive generatrici di innovazione e disponibili a trasferire sul piano industriale i risultati della ricerca finanziata. L’emendamento non passò poiché in commissione bilancio prevalse l’idea secondo cui le imprese per assumere hanno bisogno di liquidità (credito d’imposta e stages pagati dallo stato): un autorevole esponente di Confindustria, di fronte all’obiezione sull’inutilità degli incentivi automatici, mi rispose: «Lei ha ragione, ma io rappresento tutta le aziende, quindi se non sostenessi gli incentivi per tutte le filiere quelle escluse protesterebbero»; quindi nessun vincolo d’innovazione e incentivi per tutti, altrimenti le filiere produttive non meritevoli sarebbero insorte. Oggi Confindustria sembra aver cambiato idea: il presidente Squinzi preferirebbe cancellare le inutili agevolazioni per le aziende in cambio del taglio dell’Irap. Il governo Letta non l’ha ascoltato e ha varato misure poco efficaci quali l’aggiornamento della Legge Sabatini e il credito d’imposta sull’occupazione per gli under 29. Giustamente Squinzi ha ricordato che un’impresa assume lavoratori se esiste la domanda dei beni che produce; per assumere nuovi lavoratori è necessario prima lo sviluppo: e infatti alcune aziende italiane hanno delocalizzato in Austria e in Germania dove il costo del lavoro è pari a quello italiano ma il sistema produttivo è solido.

Il lavoro si crea con le politiche industriali, non con gli sgravi fiscali. Non solo: negli ultimi trenta anni con un uso improprio del termine innovazione è stato spacciato all’opinione pubblica l’incentivo alle aziende per il trasferimento tecnologico come innovazione del sistema produttivo. Come se la sostituzione della rete informatica aziendale, grazie al contributo a fondo perduto, fosse innovazione tecnologica. Le ministre Stefania Giannini e Federica Guidi cambieranno questo brutto paradigma o (come i loro predecessori) continueranno a buttare i fondi europei negli incentivi automatici?

L’eccezione tedesca al rigore

Oggi l’Italia investe poco anche perché i tedeschi chiedono il rispetto delle regole del rigore contabile; il prossimo 17 marzo, quando incontrerà la cancelliera Merkel, Renzi dovrebbe ricordarle che 11 anni fa anche i tedeschi non le rispettarono. Infatti nel 2003 la Commissione Europea, presieduta da Romano Prodi, con il professor Monti alla concorrenza, denunciò Francia e Germania poiché avevano sforato i limiti del deficit di bilancio (3% sul Pil) imposti dal Patto di Stabilità. Ma alla Commissione, che difendeva le regole stabilite, si opposero l’Eurogruppo ed Ecofin che fecero sospendere la procedura per deficit eccessivo nei confronti di Parigi e Berlino. Allora furono discriminati gli Stati membri virtuosi, che avevano rispettato il Patto: Austria, Finlandia, Olanda, Spagna. Poiché grazie al complice sostegno degli italiani (e all’appoggio esterno degli inglesi), nel 2003 i tedeschi e i francesi ottennero l’intervento dei ministri delle Finanze e l’esenzione dalle sanzioni previste, oggi l’Italia potrebbe chiedere la stessa deroga e varare investimenti per lo sviluppo.

A tale riguardo occorre smentire il luogo comune secondo il quale noi italiani otteniamo favori e la ricca Berlino ci mantiene: è semplicemente falso. Dopo Germania e Francia, l’Italia è il «terzo contribuente netto» (nel senso che dà a Bruxelles più di quello che riceve), prima, sottolineo prima, di Gran Bretagna, Olanda, Belgio e della rigorosa Svezia. La Corte dei Conti (pagine 25-32 della Relazione del 30 dicembre 2013 della sua sezione di controllo per gli affari comunitari e internazionali) stima il contributo netto dell’Italia al bilancio dell’Unione Europea per il 2012 pari a 5,7 miliardi di euro: infatti nel 2012 abbiamo versato 16,4 miliardi di euro e ne abbiamo ricevuti appena 10,7. Tra il 2006 e il 2012 l’Italia ha avuto nel complesso un saldo negativo tra i contributi versati all’Ue e le risorse ricevute pari a 41,2 miliardi di euro. Paradossalmente la cancelliera tedesca Merkel, appena rieletta a settembre, sottolineò che i fondi europei per lo sviluppo avrebbero dovuto essere spesi meglio e che il primo paese problematico fosse l’Italia; non solo, per tale ragione Merkel ha anche ipotizzato una task force a Bruxelles sui fondi europei con poteri sostitutivi nei confronti degli stati membri inefficienti. In realtà i tedeschi sono ben contenti: poiché spendiamo poco e male i fondi europei per lo sviluppo, regaliamo 41,2 miliardi in sette anni a Bruxelles e non facciamo concorrenza alle imprese tedesche.

 

*esperto fondi strutturali europei, già consulente II governo Prodi