Un dialogo sull’anzianità, sul rapporto tra le generazioni. E dunque anche una ricognizione sull’adolescenza. Sono questi i temi affrontati nel volume firmato da Miguel Benasayad e Riccardo Mazzeo (C’è una vita prima della morte?, Erickson edizioni, pp. 134, euro 15). Due autori diversissimi tra loro, ma accomunati da una stessa tensione, l’irriducibilità a una concezione dominante che cancella la possibilità di un dialogo tra diverse generazioni e un’alterità verso chi ritiene che i problemi delle società contemporanee derivino dalla mancata «rottamazione» di chi siede da decenni sugli scranni del potere senza avere nessuna intenzione di lasciare il passo ai «giovani».

Miguel Benasayag è uno psicoanalista con una solida preparazione filosofica (la prima laurea l’ha avuto proprio in questa disciplina). Dirigente politico della sinistra rivoluzionaria in Argentina, ha fatto la scelta della lotta armata per contrastare il potere militare. Arrestato ha conosciuto il carcere e la tortura. Riparato fortunosamente in Francia, ha approfondito gli studi della psicoanalisi e da alcuni decenni si occupa di devianza, marginalità e disagi psichico nelle istituzioni psichiatriche francesi. Spinoziano convinto ha scritto un fortunato saggio sulle Passioni tristi del tardocapitalismo (Feltrinelli). Riccardo Mazzeo, invece, è un editor della casa editrice Erickson, ma da alcuni anni ha incontrato più volte alcuni «grandi vecchi» della cultura europea (Edgar Morin e Zygmunt Bauman), traendone materiali per importanti libri sull’educazione, su Marx e ristampando sempre per Erickson, con una nuova traduzione e introduzione, il saggio di Edgar Morin su L’uomo e la morte .

Il dialogo presentato in questo libro segue due direttrici parallele, anzi interdipendenti. L’anzianità è una condizione umana negata. Chi ha doppiato la boa della maturità difficilmente accetta di entrare in una fase della propria vita che ha una sua specificità (l’esperienza accumulata, un certo decadimento fisico) che nel passato erano sinonimo se non di saggezza, almeno di maggiore capacità di affrontare una vita sociale non sempre generosa. Gli anziani, afferma Benasayag inseguono il sogno di una eterna giovinezza. La chimica, il fitness sorreggono questo esasperato e triste giovanilismo. Ma quello che lo studioso argentino rifiuta è l’irrilevanza che tanto gli anziani che gli adolescenti assegnano alla «trasmissione» dell’esperienza accumulata. Se per i giovani ciò è comprensibile, la rinuncia a questa funzione degli anziani è catastrofica per l’insieme della società.
Né Benasayag, né Mazzeo fanno propria la campagna contro i giovani che in molti paesi europei e negli Stati Uniti vede protagonisti esponenti politici, comitati di genitori o «esperti» nel tratteggiare i giovani siano come una «classe pericolosa» da reprimere perché attenta all’ordine sociale Sono tuttavia consapevoli che la mancata trasmissione dell’esperienza tra generazioni accentua comportamenti «devianti» tra gli adolescenti. E che se qualche responsabilità di questa situazione va cercata è da trovare proprio nel «giovanilismo» esasperato degli anziani. A ognuno il suo ruolo, sostengono i due autori. Gli anziani sono forti della loro esperienza. Hanno una percezione del tempo e del divenire della realtà meno rapsodica, sincopata di quanto può invece percepire un giovane. Due modalità differenti del vivere in società entrambi legittimi. Entrambi sono però condannati a vivere in un eterno presente.

Ci sono passaggi molti belli in questo serrato dialogo. Come quando Benasayag segnala le difficoltà dei giovani a trovare il loro posto in società a causa del «giovanilismo» degli anziani. Oppure quando Mazzeo segnala la sofferenza provocata da una società che ammicca all’esasperato consumo dei giovani, mettendo contemporaneamente in campo politiche sociali che considerano una quota della popolazioni degli «scarti umani» da gettare nelle discariche sociali che costellano le metropoli contemporanee.

Benasayag lambisce anche il tema di come le tecnologie modificano la capacità comunicativa e l’apprendimento tanto nei giovani che nei «vecchi». La manifestazione di alcuni disturbi – il deficit di attenzione, la perdita di memoria, la difficoltà di apprendere competenze scientifiche – derivanti dalla pervasività delle tecnologie -computer smartphone, ma anche la tv – sono affrontati da schiere di esperti che scendono in campo solo per «medicalizzare» la realtà sociale.
Le due condizioni biologiche, l’anzianità e il suo contraltare, l’adolescenza, sono affrontati da come espressione del rigetto, meglio della rimozione della morte, anch’essa manifestazione di un ineludibile approdo biologico. Ma che nel fare questo, quella stessa società che ha paura della morte alimenta un pervasivo e distruttivo sentimento mortifero nelle relazioni sociali.