Il Sahel è una regione dell’Africa sub-sahariana variamente intesa, sintesi di dinamiche sociali, politiche, ecologiche, religiose e culturali diverse. Comprenderne l’evoluzione è di sempre maggiore urgenza, soprattutto considerando le relative implicazioni sulla popolazione locale, sui flussi migratori e sugli equilibri geopolitici e geostrategici mondiali. Il libro Sahel in movimento (L’Harmattan Italia Editore, euro 36), a cura di Maria Luisa Maniscalco, docente ordinario di sociologia all’università di RomaTre, realizzato con il contributo del Cemiss (Centro Militare di Studi Strategici), aiuta a dipanarne la complessità.

Il volume, come afferma la stessa Maniscalco, non cede allo «sguardo coloniale» che vede i conflitti e il sottosviluppo come espressioni tribali e regressive, ne premette schemi riduzionisti che individuano negli aspetti economici e strategici esterni l’unica variabile interpretativa. Ogni saggio (gli altri autori sono Pina Sodano, Valeria Rosato e Gabriele Moccia) riesce ad approfondire alcuni temi specifici, a partire dal rapporto nel Sahel tra crisi alimentari e flussi di popolazione (Sodano), la relazione nella regione tra terrorismo e criminalità (Rosato) e gli interessi geopolitici e geostrategici internazionali (Moccia).

Il libro pone la regione africana al centro di un nuovo «grande gioco» di potenze straniere mosse da una forte volontà di affermare il proprio potere, economico e militare, e di ampliare la propria sfera di influenza. Un crocevia transnazionale di interessi vari e ambito di annose rivalità interstatali, lotte intestine (etniche, religiose, politiche, settarie, territoriali) e colpi di Stato. Regione tra le più povere del pianeta, il Sahel vive il drammatico collasso del suo ecosistema, elemento generalmente trascurato da gran parte delle analisi sociologiche e invece ben affrontato dal saggio di Pina Sodano sulla «crisi alimentare e flussi di popolazione». Quello dei profughi ambientali è un fenomeno ancora da comprendere nel merito. Le stime delle Nazioni Unite prevedono per il 2050 tra i 200 e 250 milioni di profughi ambientali. Una cifra enorme di cui l’Occidente è corresponsabile, considerando la sua ottusa volontà nel perseguire modelli di sviluppo climalteranti. Sodano fa risalire, a ragione, l’origine della degenerazione ambientale saheliana alla colonizzazione francese del XIX secolo, che tolse alla popolazione locale l’suo dei pascoli migliori e dei pozzi d’acqua. A questo aggiunge l’introduzione della monocultura, che tolse definitivamente la gestione delle risorse agricole e naturali alle comunità locali per affidarle ad una sovrastruttura istituzionale occidentale che le gestì a proprio esclusivo vantaggio. Proprio la Francia, secondo Sodano, a metà degli anni Trenta del secolo passato requisì le terre più fertili e introdusse la proprietà privata, sconvolgendo l’organizzazione sociale locale e imponendo alla popolazione modelli produttivi e sistemi politici ignoti e alienanti.

Valeria Rosato concentra invece la sua analisi sulla criminalità organizzata e il terrorismo. La minaccia terrorista, come scrive l’autrice, nella sua particolare versione islamista, è un fenomeno recente per il Sahel che agisce insieme alla strutturale debolezza degli organi istituzionali, i traffici illeciti e le rivendicazioni separatiste. Fenomeni, questi, di una deriva che rischia di interessare l’intera regione, lasciando ampio spazio ad un’alleanza criminale con legami internazionali. La risposta non è solo militare, ma, come ritiene anche il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, deve comprendere crescita economica, riduzione della povertà, promozione della good governance, rafforzamento delle istituzioni statali, estensione dei servizi sociali e lotta alla corruzione. Un approccio che potrebbe portare risultati concreti, a patto di trovare il necessario consenso internazionale e le risorse, economiche e politiche, da investire in un’area oggi strategica.

L’ultimo saggio è di Gabriele Moccia e riguarda, in primis, la politica francese nell’area e la sua evoluzione. Un’analisi particolarmente interessante, soprattutto considerando che la Francia importa dalla regione dal 18 al 30% dell’uranio indispensabile per le sue 19 centrali termonucleari e i relativi 58 reattori operativi. Una sorta di monopolio gestito dalla sua multinazionale Areva (90% in mano allo Stato francese), parzialmente incrinato dagli interessi di altre multinazionali protagoniste del business nucleare. Di pari interesse sono i paragrafi relativi alle strategie cinesi, statunitense e europee nell’area. In definitiva, come scrive la Maniscalco, ne deriva un Sahel espressione di un nuovo «ordine» violento del narcotraffico e del terrorismo, della stagnante insofferenza della popolazione esposta ai mutamenti climatici, delle scorie del passato e delle lotte intestine, ma anche densa di rivendicazioni e aspettative, speranze, frustrazioni e vitalità dei suoi abitanti. Da questi può nascere un nuovo protagonismo e aspirazioni di emancipazione che non saranno senza significato per l’Europa. A patto di comprenderle in anticipo e in modo adeguato.