Paradossalmente l’unico assente al summit digitale di mercoledì alla Trump Tower era Jack Dorsey, amministratore di Twitter, notoriamente il canale social prediletto del neoeletto presidente. Dorsey aveva definito «problematico» il rapporto con gli anatemi twittati da Trump e negato alla sua campagna elettorale l’uso di un emoji anti-Hillary. Ma, esclusione punitiva di Twitter a parte, il resto del gotha c’era tutto: da Tim Cook (Apple) a Sheryl Sandberg (Facebook), Jeff Bezos (Amazon) e Larry Page (Google).

Alla Trump Tower si sono presentati tutti i maggiori esponenti del complesso «digitale-industriale» che ha aspramente criticato Trump e durante la campagna elettorale sostenuto e finanziato Clinton. Molti a Silicon Valley avevano criticato la scelta di accorrere alla corte di Trump. Gizmodo, irriverente organo ufficioso della Valley, si era chiesto quale potesse essere «la punizione prescelta dal supremo leader per i suoi sleali sudditi». L’ironia si riferiva alla «seduta di rieducazione» riservata un paio di settimane fa dal presidente «manciuriano» ai luminari del giornalismo Usa, convocati anch’essi nella torre sulla quinta strada per un incontro trasformatosi presto, secondo i testimoni, in un «maledetto plotone d’esecuzione». Agli anchor e inviati dei network tv, Trump avrebbe fatto una sonora ramanzina, apostrofando a un certo punto il direttore della Cnn, Jeff Zucker, così: «La sua tv fa schifo, alla Cnn siete tutti bugiardi. Si dovrebbe vergognare».

Per quanto riguarda le controparti digitali, il populismo espresso da Trump nelle regioni deindustrializzata della rust belt non aveva certo impressionato i tecnocrati e venture capitalist della Left coast. Durante la campagna elettorale una lettera aperta contro Trump era stata firmata da 145 luminari tech, guidati dal co-fondatore Apple, Steve Wozniak, e da Jimmy Wales di Wikipedia.

Eppure le foto rilasciate dall’ufficio stampa hanno rimandato l’immagine di un consesso gioviale di oligopolisti digitali attorno al grande tavolo di Trump, patriarca della old economy e della new politics. Un immagine singolare, visto che solo pochi mesi fa il neoeletto presidente aveva invocato un boicottaggio della Apple. Allora, la produttrice di iPhone aveva rifiutato la richiesta dell’Fbi di accedere ai codici software e «perquisire» i telefoni degli attentatori di San Bernardino.

I generalissimi istallati da Trump al comando dell’apparato di sicurezza nazionale quasi certamente concordano in materia di accesso ai segreti industriali della Silicon Valley per agevolare la sorveglianza. Un altro terreno di contenzioso riguarda i cosiddetti visti «H-1B» agli immigrati (soprattutto asiatici e indiani) di cui la Silicon Valley ha bisogno come programmatori specializzati nelle proprie officine di software. Una fonte di mano d’opera globale per cui il regime protezionista e anti immigrazione paventato da Trump rappresenta una minaccia potenzialmente devastante. Ora invece Travis Kalanick e Elon Musk, rispettivamente capi di Uber e Tesla-Space X, sono stati nominati consulenti speciali per l’impresa (in precedenza Musk aveva definito «improponibile» the Donald e Kalanick aveva dichiarato che in caso di sua vittoria sarebbe emigrato in Cina).

La «resa» si spiega forse con le affinità tra l’industria high-tech, fautrice di una enorme concentrazione di ricchezza in pochissime mani, celata dietro la retorica della democratizzazione orizzontale e un prossimo governo blindato dagli interessi industriali allineato dietro ad un demagogo che lancia tweet populisti alla plebe. Silicon Valley, di vocazione liberista, ultra meritocratica e iper globalista, potrebbe insomma trovare insospettate convergenze col regime Trump. Mercoledì i signori dei computer sono stati ricevuti da Peter Thiel.

Esponente controcorrente della stessa Silicon Valley, Thiel è stato fondatore della piattaforma di pagamenti Pay Pal ed è attualmente grande azionista di Facebook che lo ha reso favolosamente ricco. Thiel ha sostenuto da subito il candidato Trump, contribuendo $1,25 milioni alla campagna e parlando alla convention di Cleveland. Oggi da «consigliere tecnologico» sostiene che lo stile anticonformista del capo potrebbe «rivitalizzare l’economia». Considerate le nomine ministeriali di Trump è difficile non leggerlo come un codice per mobilità, precariato digitale, gig economy e un ulteriore smottamento dei modelli tradizionali di lavoro dei ceti medi e produttivi.

Tv e giornali sono capro espiatorio preferito da Trump che ama dileggiare i membri della stampa fra i fischi dei suoi comizi e deridere il New York Times come dinosauro in via d’estinzione. Le piattaforme di Silicon Valley – oltre che strumentali all’era della bufala virale su cui Trump ha costruito il successo – sono invece in pieno boom e corrispondono quantomeno alla retorica di innovazione e know-how come supremo strumento per «rendere grande l’America». A differenza delle miniere di carbone che promette improbabilmente di riaprire in Kentucky e West Virginia o le acciaierie rottamate dell’Ohio care alla propria base elettorale il «complesso digitale industrial» è un comparto effettivamente strategico all’egemonia globale americana.

Un settore per di più che promette di risultare critica nella formulazione di un nuovo rapporto con la Cina.

Le prossime politiche del silicone di Trump saranno banco di prova per privacy e protezionismo ed in generale per le strategie che guideranno un’economia. Quest’ultima, come ha lasciato intendere Janet Yellen nell’annunciare l’incremento dei tassi, viene consegnata al nuovo presidente in stato di ottima salute fiscale con deficit minimi, produttività record e piena occupazione.