Portare il cognome Müller in Germania è come chiamarsi Rossi in Italia, equivale a una certezza d’anonimato. Diego Maradona ne era in qualche modo consapevole, il 3 marzo 2010, dopo che l’Argentina aveva violato l’Allianz Arena di Monaco di Baviera e conquistato una promettente vittoria in vista dei Mondiali sudafricani. Alla rituale conferenza stampa, gli pareva impossibile che quello sbarbatello che gli stava di fianco avesse il diritto di sedere accanto a lui. Chiese pertanto che fosse allontanato: dopotutto, si giustificò, parlano gli allenatori e non i raccattapalle.

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Il giovanotto biondo e dinoccolato non era altri che Thomas Müller, in quell’occasione all’esordio in nazionale. Uscito dal prolifico vivaio del Bayern Monaco, molti l’hanno etichettato semplicemente come prototipo del calciatore moderno, nell’impossibilità di tracciarne un identikit tecnico più definito.
Coetaneo di altre più reclamizzate e peraltro assai più impalpabili star globali, Müller non ha l’epidermide istoriata di tatuaggi auto-celebrativi, neo-gotici o stucchevolmente romantici, e anche mentre gioca passa quasi inosservato. Poco ortodosso nei movimenti, non veloce, né dotato di un dribbling che sdraia i difensori. Conta piuttosto su una forza interiore insolita in un calciatore giovane e su una straordinaria capacità di “vedere” la porta, tanto da fare del gol un’ovvia routine che scaturisce da un facile appoggio da pochi metri o da una perentoria conclusione dalla distanza.

Thomas è solo l’ultimo dell’interminabile stirpe dei «mugnai» (questo il significato del cognome) che hanno fatto grande il calcio tedesco. Del più celebre di loro, Gerd, il cannoniere implacabile degli anni ’70, Thomas veste la maglia n° 13. Lo fa con disinvoltura e a ragione, visto che a soli 24 anni può fregiarsi di un titolo di capocannoniere conquistato ai Mondiali del 2010, cui ha finora aggiunto altri cinque gol nella competizione che si chiude stasera con l’epilogo fra i bianchi e la Selección biancoceleste, una classicissima della Coppa del mondo.
A ritroso, con il ricordo, giova partire proprio dal precedente più fresco, il quarto di finale di Città del Capo, quando l’imberbe Thomas segnò al terzo minuto, facendo ingoiare a Maradona la sua mancanza di rispetto e spianando la strada ai compagni verso una sonante vittoria per 4-0.

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Anche nell’edizione del 2006, disputata proprio in Germania, le due squadre si incontrarono nella fase a eliminazione diretta e, dopo un’iniziale vantaggio, l’Argentina si fece riacciuffare in chiusura per soccombere infine ai tiri dal dischetto, dopo i quali si scatenò una rissa al centro del campo, che costò un’espulsione al sudamericano Leandro Cufré e una squalifica al tedesco Torsten Frings, che per questo saltò la semifinale con l’Italia.

Animi surriscaldati anche nella finale dei Mondiali del 1990, a Roma. Decimata da squalifiche e infortuni, l’Albiceleste, con Maradona capitano, si arrese per un rigore dubbio trasformato da Andreas Brehme e terminò in nove uomini, dopo che Pedro Monzón era diventato il primo giocatore espulso in una finale mondiale, subito seguito da Gustavo Dezotti, cacciato per aver colpito un avversario con quella che parve una ben eseguita mossa di wrestling.

Come ben noto, l’unico successo gaucho con i due punti in palio risale alla finale messicana del 1986. Fu ovviamente il Pibe de oro l’artefice di quell’impresa. Dopo la mano de dios e il gol del secolo, entrambi inflitti all’Inghilterra, Maradona rimase a secco contro l’undici allenato da Franz Beckenbauer, ma Jorge Burruchaga dovette a lui l’assist che trovò sguarnita la difesa avversaria e lo spedì in porta per il gol del decisivo 3-2.
Allora, Thomas Müller non esisteva neanche in incognito o forse compariva come omonimo in qualche elenco telefonico tedesco: vale a dire, come si diceva, una perfetta garanzia di oblio. A meno che non ti capiti di guidare la tua nazionale alla conquista della Coppa del mondo. Come è accaduto a un certo Rossi.