Francesco Germinario è uno dei più importanti studiosi della destra estrema nel nostro Paese. Grazie anche alla Fondazione Micheletti di Brescia, che da diversi lustri va indagando su quell’universo molecolare nel quale si agitano protagonisti il cui agire è spesso sottotraccia, comunque carsico, possiamo avere un quadro storico, ma anche cronachistico, aderente ai suoi concreti sviluppi. Bisogna dare atto a Germinario di avere recuperato la lezione, purtroppo incompiuta, di Franco Ferarresi, politologo e ricercatore che alla comprensione delle dinamiche della destra antidemocratica si era ripetutamente impegnato, scomparendo tuttavia prematuramente quasi vent’anni fa e lasciando quindi interrotto il suo lavoro.

L’acribia con la quale Germinario si è dedicato allo studio, in quanto fonti, della libellistica e dei testi di quell’area politica non ha molti pari, data anche l’irritante abrasività delle tesi sostenutevi e il criptico irrazionalismo che le accompagna. Da almeno vent’anni segue quindi la sua produzione editoriale, sospesa tra samizdat e pamphlet, oltre che la traiettoria di personaggi e gruppi d’area. Con il suo nuovo libro dedicato a Tradizione, mito, storia. La cultura politica della destra radicale e i suoi teorici (Carocci, pp. 214, euro 18) l’autore ci permette di fare un po’ di ordine in merito a quel che c’era, e a quel che resta sul piano culturale, di una realtà dai tratti altrimenti molto sfuggenti.

Il mercato della rappresentanza

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Il punto di partenza è quello della morte, e la fascinazione per essa, che costituisce anche il punto d’arrivo. La destra radicale postbellica si costituisce infatti sulla scorta di una necessità impellente, rielaborare e superare il lutto per la sconfitta totale del 1945. Non può prescindere da questo faglia periodizzante, essendo l’elemento storico che più di qualsiasi altra cosa la rende differente sia dalla destra rivoluzionaria e populista della fine dell’Ottocento sia dai fascismi come dal nazismo in quanto regimi «di massa». Se la prima e i secondi si inseriscono a pieno titolo nei processi di nazionalizzazione delle collettività, contendendo alla sinistra il «mercato» della rappresentanza di ceti e classi che sono ora la nuova ossatura degli Stati nazionali, per la destra radicale postbellica il percorso sembra invece essere segnato in senso esattamente opposto. Al rifiuto della società borghese, e quindi della «mediocrità» liberale, insieme al diniego della democrazia, «sifilide dello spirito moderno» (Pino Rauti), si coniuga il primato dell’azione su quello dell’elaborazione intellettuale e culturale.

Le verità immutabili

Il pensiero del radicalismo neofascista si vuole offrire all’osservatore nella sua presunta qualità di insieme coerente di gesti, intendendosi come una sorta di totalità operante, che non necessita di moventi e motivazioni, essendo già di per se stesso un percorso compiuto di intuizioni. Nelle affermazioni dei suoi estensori non è il concetto – e quindi la comprensione critica – ciò che denota la facoltà del sapiente ma la percezione di una dimensione trascendentale, che sopravanza la prassi quotidiana. Esiste una verità originaria (quella per cui è nella Natura, con la maiuscola, che dimora la giustizia e che ogni costruzione sociale ha i caratteri della manipolazione, cercando di livellare le diseguaglianze, altrimenti in sé non solo ineliminabili ma giuste perché necessarie) che deve essere cercata e quindi rivelata ma mai creata. Poiché se una verità viene generata essa non è più autentica, primigenia, bensì posticcia. Esattamente ciò che la storia va facendo, svellendo le differenze «naturali» tra gli uomini, quindi la gerarchia che è sottesa alle loro relazioni.

Ripristinare le scale di diseguaglianza è ciò che il radicalismo chiama «Tradizione». Tale, quest’ultima, perché patrimonio indistruttibile e immodificabile. Tradizione e verità, due facce della medesima medaglia, riposano nella loro dimensione trascendente, metastorica, pertanto oltre la storia umana medesima. La feroce e implacabile critica che viene fatta della società borghese e allo stesso capitalismo mette in rilievo la fragilità del legame sociale, basato sull’utilitarismo. Per rivalutare la potenza dei fascismi e del nazismo, il cui fondamento è quello razzista, l’unico in grado di riconoscere le abissali distanze tra uomini, ristabilendo, in virtù del principio di diseguaglianza, le scale di differenza «naturali», la destra radicale deve però compiere una manovra spericolata, consegnandosi all’immobilismo politico. Per Germinario il nocciolo duro dell’area, da dopoguerra in poi, si è costruito intorno a questo paradigma.

Il neofascismo intellettuale non può più pensarsi come articolazione di un movimento collettivo, ripiegando semmai sull’aristocraticismo come approdo obbligato per chi deve elaborare il senso del tradimento delle masse medesime. Perché è da questo che sono derivate le apocalissi dei regimi totalitari. Si transita così da una destra di mobilitazione, sedotta dalle soluzioni populiste, già postasi in chiave competitiva rispetto all’attrattivita del comunismo (così nella Germania di Weimar, e non solo) ad un microuniverso autoreferenziato, testimoniale, volutamente periferico e minoritario. Condizioni, queste, cercate perché volute e quindi non subite. Necessarie per riorganizzarne le file. Che Julius Evola sia da subito la matrice di tale approdo non può certo sorprendere. In questo autore la dimensione impolitica diventa vero e proprio «mito incapacitante». Laddove l’incapacità rimanda da subito all’impossibilità di identificare un soggetto storico per la trasformazione rivoluzionaria, perennemente vaticinata. Se permane e si rafforza il mito di una società organica, fatta di parti in perfetta armonia, disposte verticalmente, dove si nutre l’orrore per la molteplicità e la varietà sociale, intese come corruzione della Natura medesima, e se si professa come unica differenza possibile quella aristocratica, avanza anche l’idea che qualsiasi tentativo di confrontarsi con la storia – così come i regimi del XX secolo fecero – sia un tragico adattarsi al «gioco osceno» che obbliga a tradire la Tradizione. La quale riposa nella testimonianza degli iniziati, non nella mobilitazione collettiva. Anche da ciò deriva il percorso di un’altra icona di area sulla cui figura l’autore si sofferma ripetutamente, quel Franco Freda che, insieme ad altri, teorizza e pratica la «comunità militante» non come aggregazione di persone bensì soprattutto come vissuto esistenziale condiviso.
L’«Ordine» al quale l’intellettualità neofascista e neonazista si rifà, a questo punto, si fonda a sua volta su di un tempo senza storia, cioè privo di scorrimento, di fatti, di eventi, di protagonisti che abbiano un qualche senso fondante. Non si tratta di un passato che deve nostalgicamente tornare bensì di un deposito ancestrale che deve essere fatto riemergere.

Il paradigma delle origini

L’ordine politico è clamorosamente fallito sulle rovine di Berlino nel maggio del 1945 o a Giulino di Mezzegra, il 28 aprile di quello stesso anno. Lì, il tradimento non fu solo dei politici ma della politica tout court, laddove essa si rivelò non all’altezza della sfida che il mondo tradizionalista aveva avanzato contro la modernità. L’unica via morale praticabile, da quel momento, consiste nella ripetizione del paradigma della fondazione medesima. La storia, invece, è di per se stessa degradazione. Poiché la politica non esiste come prassi autonoma ma solo come realizzazione dei principi della Natura. Mentre il mondo contemporaneo va in direzione esattamente opposta ad essi.

Cosa rimane, allora, della destra radicale, soprattutto da un punto di vista teoretico, se l’approdo parrebbe essere più quello contemplativo, informato ad una fittizia autoriflessività dove l’unico obiettivo è il ribadire l’intangibilità di un sapere iniziatico e, per molti aspetti, irraggiungibile? Il realtà la seduzione del vuoto, in autori come Freda, Evola, ma anche Locchi ed altri ancora, è forse una delle chiavi di volta per intenderne l’attrattività, come anche i limiti strutturali. Lo sforzo da essi compiuto è di trasporre parte di quell’universo irrazionalista, che aveva preso progressivamente piede in una parte dell’intellettualità europea, all’insegna della rivolta contro il terzo e il quarto stato, con l’inizio del secolo scorso, all’interno di una traiettoria autoconservativa.

La figura che emerge dalle rovine, queste ultime decantate come una sorta di obbligata condizione esistenziale per il militante radicale, è quella del «soldato politico», che già gli aedi della rivoluzione conservatrice avevano letto come il soggetto storico del mutamento. Lo scacco dell’impoliticità risiede però nel fatto che se un tempo la milizia era funzionale alla sovversione degli equilibri esistenti oggi testimonia di uno stallo persistente, tradottosi in immobilismo.

Ideologia dell’antideologia

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Il soldato politico è tale nella misura in cui è uno sconfitto. La sua cifra sta nel documentare l’impotenza. In realtà, non poche delle pulsioni presenti nel radicalismo di destra sono state assorbite dalla ferinità che è presente nelle frange più estreme, e radicate, del neoliberismo. Il quale, da subito si presenta, al pari della vecchia destra radicale, come l’ideologia dell’anti-ideologia. Esso stesso assume quei caratteri di totalità ai quali il radicalismo aspirava, surclassandolo tuttavia nella sua capacità di trasformarsi in pensiero di senso comune, da utilizzare nell’azione. Non è un caso che il neoconservatorismo più acceso, la destra del Tea Party, che ha un carattere oramai sovranazionale, celebri la definitiva consunzione dell’azione di massa nel momento stesso in cui dice di parlare per le collettività medesime. Se l’ideologia neofascista e neonazista intendeva decretare la morte della storia, sostituita da un tempo mitologico, oggi non possiamo certo dire che aspetti di tale configurazione non siano presenti nella nostra quotidianità. Poiché l’ideologia corrente celebra il presente come unico tempo possibile e quindi reale. Un tempo anch’esso mitologico, a ben guardare. Non è la destra aristocratica ad essere andata al potere, ma quella oligarchica che, del pari alla prima, considera ogni forma di democrazia sociale un impaccio intollerabile. Non è cosa da poco, a ben pensarci.