Un tempo una elettrice, un elettore di sinistra aveva pochi dubbi sul voto, forte di un paio di ancoraggi a disposizione, che davano una relativa sicurezza. Quei tempi mai come adesso appaiono lontani: nel cosiddetto popolo di sinistra c’è divisione, incertezza, dubbio. Anche se all’apparenza si ostenta determinazione nella scelta.

Un tempo il Pd dava garanzie sulla tenuta democratica del Paese e della società civile. Questo ruolo il Partito democratico lo ha assolto con i governi di Berlusconi, quando era fin troppo facile presentarsi come forza alternativa al centro-destra. Finita l’era berlusconiana ha prevalso la piatta amministrazione della ditta di Bersani, facile preda per le ambizioni e la presa del potere di Renzi che, sulla falsariga veltroniana e sull’illusione dello straripante voto europeo, ha puntato al partito “omnibus”, senza però riuscirci se non per un breve lasso di tempo. Il presidente del Consiglio, convinto di essere onnipotente, ha usato la “rottamazione” – in parte necessaria – come arma di liquidazione di massa interna. Senza tuttavia esercitare una forte capacità attrattiva verso destra (se non nelle ridotte di Alfano e Verdini). Renzi ha fatto intorno a sé terra bruciata. E adesso va ai ballottaggi elettorali praticamente da solo.

Un tempo c’era la sinistra, antagonista, sociale, culturale che in maggior parte si riconosceva in Sinistra Ecologia e Libertà, un partito che dopo un certo successo politico, non è riuscito a diventare punto di riferimento per quei movimenti, quelle forze sparse, anche sindacali, in alternativa al Pd. E non è riuscito a “inventare” una leadership dopo il “passamano” di Vendola, tanto che a Roma – la città più importante da amministrare – si è presentata con Fassina, appena uscito dal Pd. E abbiamo visto un risultato elettorale modesto, quasi dappertutto. E’ proprio quest’area a registrare il più forte disorientamento di fronte ai duelli dei ballottaggi.

Un tempo non c’era il Movimento 5S. Ora c’è e raccoglie un grande consenso. Tanto da proporsi come forza di amministrazione locale oggi – anche se in zone limitate del territorio italiano – e di governo nazionale domani. È vero che il consenso è stato costruito sul “vaffa”, sul “noi siamo puliti voi siete tutti ladri”, “noi diversi, voi tutti uguali”. La semplicità primaria dei loro messaggi ha fatto presa su milioni di elettori colpiti da una crisi senza fine, e soprattutto tra i tanti giovani giustamente insoddisfatti e senza futuro. L’altra faccia della medaglia è la violenta torsione del concetto di democrazia. Sia all’interno del Movimento (il dissenso interno viene stroncato sul nascere), sia per l’uso dei social network che costruiscono “leader” applicando qualche algoritmo, con la disposizione a falange quando assalgono i nemici esterni e interni.

Dentro questo quadro poco incoraggiante domenica siamo chiamati al voto e “ma tu come voti?”, è un passa parola generale perché se l’analisi è condivisibile, poi si arriva alla domanda. La risposta non è semplice.

Si dice che il secondo turno del ballottaggio è un’altra elezione: è vero perché chiama l’elettore a esprimere un voto diverso, lo spinge a trovare altre motivazioni, gli chiede un supplemento di volontà politica. Così facile (sempre relativamente) decidere a chi dare il consenso al primo turno, quanto difficile riuscire a esprimere politicamente un secondo voto. Fuori gioco la sinistra dai ballottaggi (esito chiaro quanto prevedibile), si torna al seggio o si sta a casa?

In alcune situazioni la scelta è meno complicata. Nei confronti tra centrosinistra e centrodestra (per esempio Bologna o anche Milano) si può votare senza farsi troppi problemi contro lo schieramento che va dai berlusconiani, agli ex fascisti e ai leghisti (al ballottaggio si va al seggio o per sostenere il candidato e la lista meno lontani, oppure contro chi proprio non si vorrebbe vedere al governo, né della propria città, né del paese). Ma se, come nel caso del futuro sindaco di Roma e Torino, al ballottaggio vanno due renziani di ferro (per la serie: jobs act, riforme costituzionali e legge elettorale) e i 5Stelle, la scelta si complica.

Sulle nostre pagine negli ultimi giorni si sono confrontate opinioni di autorevoli collaboratori, esprimendo pareri molto diversi tra loro. Ciascuno aveva dalla sua buoni argomenti in favore dei candidati pentastellati (Piero Bevilacqua) o piddini (Alberto Asor Rosa), concentrandosi in particolare sul significato nazionale della scelta elettorale, sorvolando sulle problematiche di natura locale, sapendo i rischi di un affidamento del proprio voto in mani sbagliate.

Come potrebbe essere un voto sia ai candidati dei 5Stelle che del Pd. In quest’ultimo caso una vittoria diffusa del partito di governo rafforzerebbe una leadership che, nelle ricette messe in opera in questi due anni da palazzo Chigi, ha sposato senza se e senza ma, anzi con orgogliosa rivendicazione, le posizioni confindustriali, di sostegno alle imprese (da Marchionne in giù), al privato. Di pubblico questo Pd (dai tempi della segretaria Bersani, a onor di verità) non vuole nemmeno l’acqua. Una sconfitta del Pd ai ballottaggi sarebbe l’inizio della fine dell’esperimento renziano del partito maggioritario e metterebbe una seria ipoteca sulla vittoria del Si al Referendum costituzionale.
D’altra parte sventolare la bandiera della “legalità” insieme alla Lega (i sondaggisti vedono un travaso di voti tra leghisti e pentastellati), o ridurre la democrazia al populismo internettiano, all’umiliazione dei dissidenti, non ci piace. Ma oggi l’esercito di Grillo e Casaleggio non è più una forza che dice solo “no”. Per esempio a Roma con la proposta rivolta allo stimato urbanista Paolo Berdini, nostro assiduo collaboratore, di far parte della giunta comunale. Attento sulle questioni relative alla speculazione edilizia nelle aree urbane, allo scempio dello Sblocca Italia, alle lobby che mettono le mani sulle nostre città, Berdini è stato denunciato dal costruttore Caltagirone appena si è sparsa la voce che potrebbe mettere piede in Campidoglio come assessore all’urbanistica di una eventuale giunta Raggi. Un governo a 5Stelle della capitale con il suo contributo proseguirebbe l’aspro confronto tra Caltagirone e Roma toccato già in sorte all’ex sindaco Marino. Berdini in giunta sarebbe un buon biglietto da visita.

Da qui nasce la nostra incertezza se i contendenti in campo saranno i pentastellati o i piddini. Se dappertutto ci fosse un confronto come quello di Napoli non avremmo dubbi, perché de Magistris merita di nuovo un sostegno di sinistra. D’altra parte poi se si volesse allargare lo sguardo oltre i nostri confini nazionali, le sinistre populiste ci interpellano, a Napoli come nell’America di Sanders, nella Spagna di Podemos, nella Gran Bretagna di Corbyn.

Al dunque il voto – anche se difficile, scivoloso, e nonostante la sua valenza politica generale – ci offre più possibilità di scelta. Per questo non farebbe scandalo chi, pur di fronte a una situazione incandescente, decidesse di astenersi o votare scheda bianca. Anzi, l’astensione potrebbe essere la vera vincitrice delle urne.

Ma una certezza c’è: il risultato di domani, comunque vada, non avrà soltanto un significato locale – l’indifferenza ostentata da Renzi è di facciata. Perché segnerà la fine del primo tempo di una partita nella quale le squadre elettorali si giocheranno quasi tutto. Ma in autunno.