Non può sfuggire la sincronia che vede al via il samba triste – tra festa, miseria e riscatto – dei mondiali di calcio in Brasile, nelle stesse ore in cui esplode la nuova, sanguinosa crisi in Iraq. Che avrebbe preso il mondo «in contropiede». In contropiede? Vero è che chi semina vento raccoglie tempesta. Perché con l’avanzata militare del jihadismo qaedista in metà dell’Iraq siamo di fronte al più grosso smacco dell’Occidente, in particolare degli Stati uniti.

Che, apprendisti stregoni, hanno coperto con le guerre il vuoto lasciato dall’89. La guerra del 2003 venne motivata con le armi di distruzione di massa e con il fatto che Saddam Hussein complottava con al Qaeda. Non era vero, ma l’obiettivo era di stravolgere i delicati equilibri del Medio Oriente. Volta a volta, da una presidenza Usa all’altra, in chiave bipartisan, utilizzando l’estremismo islamico per destabilizzare il nemico rimasto. Gli inizi furono in Afghanistan, negli anni Ottanta, con il sostegno prima ai mujaheddin poi, negli anni Novanta ai talebani portati al potere e diventati interlocutori di Washington; e ancora la Bosnia Erzegovina con Clinton che favorisce l’ingresso di brigate mujaheddin, senza dimenticare la guerra di Saddam, per interposto interesse Usa, contro l’Iran degli ayatollah iraniani che crea l’«equivoco» del Kuwait, occasione della prima guerra all’Iraq e prodromo della seconda. È un viluppo di morte scaricata su altri popoli e continenti a salvaguardia della «nostra» supremazia. Fino alle Primavere arabe, annunciate dal discorso del Cairo di Obama del 2009 e alla loro deriva. Lì si promettevano magnifiche sorti e progressive ad un mondo ancora sottomesso, con l’irrisolta – e tale resta – questione palestinese, e alle prese con guerre feroci. I rovesci di quelle trasformazioni hanno impegnato l’Occidente in nuovi conflitti che sono all’origine della nuova forza di al Qaeda. Che non sembra finita con l’uccisione da film di Osama bin Laden, ma trova nuovi giovani leader «perché combattenti».

Ecco la semina del vento: l’intervento militare in Libia nel marzo 2011 di Francia, Gran Bretagna, Italia e poi, massicciamente degli Stati uniti – la prima guerra di Obama – che con i raid aerei aiutano le forze insorte, perlopiù jihadiste, ad abbattere Gheddafi, che ammoniva: «Se cacciate me poi dovrete fare i conti con i nemici dell’Occidente». Una guerra che ha preparato i santuari jihadisti che hanno aperto il fronte in Siria. La deflagrazione che farà capire che tutto precipita su Obama, fu l’11 settembre 2012 quando a Bengasi le stesse milizie islamiche che avevano gestito con la Cia l’intervento Usa, uccisero l’ambasciatore Chris Stevens, l’ex agente di collegamento dell’intelligence americana. Uscirono di scena per questo la segretaria di Stato Hillary Clinton, che stenta per questo a candidarsi, sotto accusa dei Repubblicani, e il capo della Cia David Petraeus, dimissionato per «adulterio». Non contenti, l’avventura siriana ha portato la Casa bianca ad aderire alla coalizione anti Bashar al Assad degli «Amici» della Siria, con Arabia saudita e Turchia in testa, che hanno riempito di armi le stesse formazioni jihadiste-qaediste che ora avanzano in Iraq verso Baghdad. L’accusa dunque non è quella neo-neocon a Obama di essersi ritirato troppo presto dall’Iraq, ma di essersi ritirato troppo poco dal militarismo umanitario ereditato, mentre resta fino al 2016 in armi in Afghanistan dove i talebani sono più forti di prima. E ora, per fermare al Qaeda, rischia un altro intervento armato e intanto deve sperare che Assad vinca in Siria e che il sud sciita sia soccorso in armi dal «nemico» Iran.

Non sappiamo chi vincerà il campionato del mondo di calcio, sappiamo chi, in Medio Oriente, ha perduto il mondo.