Un tweet del 2 novembre, con il quale il ministro Franceschini rilanciava l’idea dell’archeologo Daniele Manacorda di ripristinare l’arena del Colosseo ha generato un’immediata sequela d’interventi. E se parere positivo è stato espresso da archeologi del calibro di Andrea Carandini e Adriano La Regina, a opporsi è stato invece un illustre studioso quale Salvatore Settis. Con quest’ultimo lo storico dell’arte Tomaso Montanari e infine opinionisti in alcuni casi bene informati. Allo scopo di ritrovare la bussola abbiamo intervistato Manacorda, protagonista di quest’accesa controversia autunnale.

Le reazioni negative suscitate dalla sua proposta sembrano andare più verso un «processo alle intenzioni» che nella direzione di un dibattito costruttivo…

Restituire l’arena al Colosseo, corrisponderebbe – secondo i critici – all’introduzione di un «cavallo di Troia» per aprirci alle più orrende nefandezze. C’è, con tutta evidenza, un’incomprensione che non era presente nel testo a cui fa riferimento Franceschini e che mette in luce una forma di ansia patologica e di paura tipica di certo catastrofismo. L’asportazione dell’arena non è una traccia della stratificazione storica che ha trasformato l’anfiteatro Flavio in una fascinosa rovina. È invece il prodotto della recentissima attività scientifica e investigativa dell’archeologia, la quale ha portato a termine il suo compito e ora deve risarcire il monumento e la comunità.
I critici ostentano una posizione storicista assoluta, in base alla quale i segni del tempo devono rimanere intoccabili. Ma se – fra i segni del tempo – dobbiamo considerare anche lo scavo archeologico, allora non si dovrebbe più restaurare nulla. Nella mia visione è fondamentale ridare una forma al monumento, per restituirgli la dignità che gli abbiamo tolto e – aspetto non secondario – per renderlo maggiormente comprensibile ai visitatori. Per me questo sarebbe già un grande risultato, anche se personalmente non considero pericoloso restituire l’arena alla libera attività degli individui perché il Colosseo è sotto la tutela di un Ministero e diretto da una Sovrintendenza archeologica. Non ho, peraltro, alcuna intenzione di assumermi il ruolo di censore e di uno «Stato etico» che stabilisca per legge cosa sia di buon gusto e cosa volgare, che cosa sia legittimo oppure no. Madrigali del cinquecento, concerti jazz, partite di scacchi o di pallavolo…. Non è la norma a dover sancire che una sonata di Chopin è decorosa mentre non lo è una marcia di Strauss. È il confronto culturale che aiuta a capire cosa è ammissibile in questo tipo di luoghi. Le società si autoregolamentano sulla base del loro livello di cultura, alle istituzioni e agli addetti ai lavori spetta il compito di fare le battaglie culturali. È la società che propone, e il Ministero deciderà. Emerge tuttavia la paura di perdere il controllo di una «proprietà», sia essa fisica o intellettuale. Sono posizioni non laiche, sostenute da chi pensa di avere in tasca una verità da imporre «pedagogicamente» agli altri.

C’è però in gioco la tutela fisica di un monumento che ha già rivelato le sue fragilità strutturali.

Non c’è dubbio, e infatti nessuno ha mai pensato di ricostruire gli spalti. Un domani, forse, duecento persone potranno stare sedute sulle seggioline nell’arena del Colosseo ad ascoltare un pianista, mentre non accadrà che centomila persone assistano a un concerto di Vasco Rossi. È una questione di buon senso, non di cultura. Mi chiedo se i soliti Soloni di sinistra troverebbero scandaloso che gli orchestrali o i coristi del teatro dell’Opera di Roma – appena licenziati – facessero una serie di concerti al Colosseo, dando lavoro a centinaia di persone. Penso che piuttosto che inveire contro una presunta profanazione della Storia, si dovrebbe guardare a quel Far West di osceni gladiatori che stanno attorno al monumento e che rappresentano l’afasia delle strutture pubbliche e la loro incapacità nel gestire in maniera civile quell’area. Sembra quasi che cambiando l’esistente, si tolga a certe persone la ragione sociale del loro lavoro, che consiste nel lamentarsi dell’esistente.

Il paradosso è che questi timori viscerali sembrano provenire proprio dai difensori «duri e puri» delle Soprintendenze.

Ha detto bene: i paradossi a volte permettono di capire meglio la realtà. Per molti la cultura è cosa «esoterica», che necessita di un mediatore sociale per essere decifrata. Noi archeologi e storici dell’arte giochiamo a fare gli esoterici: guai se i musei sono affollati, se le didascalie sono comprensibili o se si fanno ricostruzioni virtuali. Se per alcuni la cultura dell’intrattenimento ha effetti negativi nei confronti del patrimonio culturale, allora significa che anche cinema e teatro non sono cultura. Restituire la sua arena al Colosseo è una questione estetica, ma è un’estetica che produce conoscenza: è una reintegrazione. Quel monumento non è più come lo vedevano nel XIX secolo. Quando è cambiato il contesto, è mutato anche lui. Nel Medioevo, l’anfiteatro è stato smontato per costruire palazzi. Noi non dobbiamo riportarlo a quella forma, ma risarcirlo dei buchi fatti dagli archeologi.

Un’altra delle sue proposte – quella di far rivivere un’area prossima alle terme di Caracalla – si è prestata a distorsioni e attacchi.

A questo proposito ho letto alcune gravi inesattezze. Si tratta in realtà di un terreno privato tenuto a prato, a ridosso delle mura aureliane, che offre una veduta romana degna del Grand Tour. L’idea dei proprietari era di farvi una scuola di golf per i bambini del quartiere o di destinare lo spazio a una qualsiasi altra attività sociale che potesse conciliarsi con la tutela e il godimento del sito. Ho invitato Stato e privati ad accordarsi perché l’area possa essere aperta al pubblico. Spero che anche in questo caso non abbia a prevalere la politica del diniego e del freno a qualunque progetto di cambiamento ragionevole e ragionato.

Una delle nuove sfide dell’archeologia non sarebbe quella di inglobare il patrimonio culturale nella vita delle città e dei territori? Il degrado, in fondo, dipende anche da una relazione malsana fra la comunità e il patrimonio di cui è – spesso inconsapevolmente – erede.

Certamente, e infatti non mi straccio le vesti se le politiche per il turismo vengono oggi comprese in quelle per il patrimonio culturale. Ma lo sa che era già pronto un progetto milionario per costruire una cancellata tutto intorno al Colosseo e ingabbiarlo? Non possono essere queste le soluzioni che propongono le Istituzioni. Usare categorie vecchie anziché pensare il nuovo, bloccare la cultura progressista. C’è una sorta di religione dell’antico che non coincide affatto con la conoscenza e che ne decreta, al contrario, l’imbalsamazione. Il nostro compito è quello di mostrare il valore del patrimonio, non di subordinarlo a un pensiero tardo borghese che non riesce a fare i conti con la democrazia di massa.

Non sarà che ci siamo allontanati un po’ troppo dall’«umanesimo»?

Se per umanesimo intende la capacità di vedere l’insieme e non solo il proprio ombelico, concordo con la sua provocazione. L’archeologia, tuttavia, si è sempre prestata a fini strumentali, il classicismo non ha la fedina penale pulita, così come il narcisismo è un noto vizio accademico. La responsabilità spesso è di chi dovrebbe svolgere la funzione d’innovazione culturale e di stimolo e indossa invece i panni di sacerdote o vestale della tutela.

In che modo questo meccanismo potrebbe essere scardinato?

Dobbiamo ambire alla laicità del pensiero e mi aspetto che siano soprattutto le nuove generazioni a farlo. Altrimenti, se i giovani chiederanno di essere ammessi anche loro alla consorteria dei passatisti di una certa sinistra conservatrice, continueranno a circolare l’ignoranza e l’arroganza delle presunte certezze.