Gli anni Ottanta, per chi avesse perso la memoria e pensasse a quel decennio come a una sorta di paradiso, soprattutto rispetto all’oscurantismo del nostro presente, non sono stati un periodo propriamente felice. Forse ne hanno un buon ricordo gli adolescenti, quelli che scoprivano le prime pulsioni sessuali, che si appassionavano ai giochi di ruolo, che giravano con il walkman isolandosi da un mondo che, nel frattempo, era popolato da mostri né più né meno come nei decenni passati e quelli a venire.

Negli anni Ottanta eravamo ancora impauriti da un possibile conflitto nucleare e fummo comunque colpiti dal disastro di Chernobyl, luogo non così tanto distante da dove con le biciclette i ragazzi giravano allegramente con le cerbottane. Gli anni Ottanta non furono solo quelli di E.T. e di Steven Spielberg. Appartennero anche a Ronald Reagan e a Margaret Thatcher, due leader che qualcosa in eredità ci hanno lasciato a proposito di imbarbarimento delle civiltà. Retrospettivamente, gli anni Ottanta appaiono come il periodo della spensieratezza. Peccato che in Afghanistan accadessero cose che avrebbero segnato indelebilmente il nostro presente. E che in Sud America e in Africa intere popolazioni lottassero per riconquistare libertà negate da atroci dittature, sostenute peraltro da quei governi che erano al potere grazie a elettori che nel frattempo si svagavano con la dance music.

E poi l’Aids, che entrava nelle nostre vite in modo più violento di un tir in corsa, anche se in molti fecero in modo che se ne sapesse il meno possibile. Morivano a migliaia e si diceva che quel virus colpiva quasi per volontà divina solo un certo tipo di persone.
Dopo questa premessa, come possiamo accogliere Stranger Things (Winona Ryder, David Harbour e Matthew Modine tra i protagonisti), nuovo prodotto seriale visibile da un paio di settimane su Netflix, che ci riporta in pieno agli anni Ottanta, con un’estetica e un citazionismo cinefilo da urlo per i cultori della materia?
Gli otto episodi creati dai Duffer Brothers si consumano senza che l’utente neanche se ne accorga. Si inizia così per gioco con la prima puntata e ci si ritrova improvvisamente alla fine con la speranza che in quella conclusione si annidino le premesse per una seconda stagione.

La storia è semplice. 6 novembre 1983, Hawkins, Indiana. Un posto come tanti, dove i cattivi sono tali perché hanno voglia di esserlo e non per delle particolari condizioni sociali. Dove i ragazzini giocano immaginando universi con mostri e incantesimi, perché poi nella vita reale tutto va avanti naturalmente. Dove le ragazze iniziano a vacillare tra l’educazione ricevuta e la voglia di sperimentare i propri desideri. E dove è un attimo che si finisca per sposare il campione sportivo del luogo senza essere innamorati. Al confine di questo mondo quasi cristallizzato, un centro che conduce ricerche segrete e pericolose. E poi…

E poi accade che uno dei bambini spensierati, scompaia quella notte del 6 novembre 1983. Le illusioni si spezzano. Il gioco si fa reale, i mostri (umani e disumani) non erano frutto dell’immaginazione, stavano lì accanto, desiderosi di prendersi tutto non appena qualcuno avesse aperto la porta. E comincia la più classica delle indagini non autorizzate, con bambini e adulti alla ricerca di una verità e pronti a scambiarsi i ruoli per provare a salvare la vittima e per trovare, dall’altra parte dello schermo, spettatori di tutte le età, pronti all’immedesimazione e alla condivisione di emozioni.
Al di là del gioco delle citazioni e delle ossessioni estetiche, Stranger Things è un prodotto che perfora la superficie del mero intrattenimento riportando lo sguardo alle mostruosità umane che bucando le nostre confortevoli pareti, trent’anni fa come oggi, ci hanno privato dell’innocenza.