«Questo è più di un golpe, è un golpe neoliberista»; «Ministeri senza donne sono Machisteri». Con questi slogan, circa 30.000 brasiliani si sono dati appuntamento a San Paolo per cercare di raggiungere la residenza del presidente ad interim Michel Temer, rispondendo all’appello del Frente Povo Sem Medo.

La polizia ha istituito un cordone di sicurezza a 300 km dall’abitazione e ha poi pesantemente attaccato i manifestanti, riuscendo a sgomberare il presidio nella notte di domenica. Temer, ex vicepresidente di Dilma Rousseff, dopo averne promosso l’impeachment, ha assunto l’incarico per i 180 giorni necessari allo svolgimento del processo. Il 12 maggio, con 55 voti a favore, 22 contrari e un’astensione, un Senato composto da un buon numero di inquisiti ha sospeso dall’incarico la presidente per presunte violazioni alle norme fiscali del bilancio di cui non si è discusso.

Temer ha così messo insieme un gabinetto di banchieri e imprenditori che rispondono agli interessi di grandi corporazioni e del Fondo monetario internazionale, molti dei quali indagati, come lui, per corruzione.

A scanso di equivoci sui suoi obiettivi e indirizzi, il presidente ha soppresso alcuni ministeri-chiave per le politiche dei precedenti governi progressisti, come quello per l’Uguaglianza di genere e di razza e quello della Cultura, accorpato a quello dell’Educazione. Massicce proteste di artisti e intellettuali, che hanno manifestato in oltre 18 città, hanno però obbligato Temer a tornare sulla decisione e ad annunciare il ripristino del ministero di Cultura.

Artisti e intellettuali sono stati in questi giorni al centro di proteste nazionali e internazionali, visibili anche al festival del cinema di Cannes. Unendosi ai movimenti e alla sinistra, gli artisti contestano il «governo illegittimo, che non include giovani, donne, afrodiscendenti né indigeni» e rifiutano anche l’annunciata nomina di Marcelo Calero a capo del ripristinato ministero di Cultura.

Al contempo, criticano che il Ministero delle Donne, Uguaglianza Razziale e Diritti umani, sia stato accorpato a quello della Giustizia, e annunciano mobilitazioni a oltranza. Proteste contro il «governo de facto» e il golpe istituzionale si stanno verificando anche in altri paesi dell’America latina, e in Europa. In Argentina, il Frente Argentino por la Democracia en Brasil ha organizzato ieri una manifestazione contro la visita del nuovo ministro degli Esteri nominato da Temer, José Serra.
Il presidente argentino Mauricio Macri è stato il primo a riconoscere il governo-fotocopia di Temer, con il quale conta di disarticolare le alleanze solidali sud-sud.

I movimenti argentini, che in questi giorni si mobilitano in difesa della legge contro i licenziamenti, approvata dal Parlamento, ma rifiutata da Macri, denunciano il «golpe parlamentare, giudiziario e mediatico» di cui è rimasta vittima Dilma Rousseff, organizzato dai settori più conservatori della società brasiliana in appoggio ai grandi interessi geopolitici mondiali.
«In Brasile sono stati violati i diritti elementari della democrazia», ha dichiarato alla stampa l’ex presidente Lula da Silva, denunciando «la storica subalternità della élite brasiliana agli interessi degli Stati uniti».

E anche la ministra degli Esteri venezuelana, Delcy Rodriguez, ha denunciato l’attacco portato attraverso il Brasile all’alleanza dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), le cui «economie emergenti, al servizio dell’integrazione, rappresentano una speranza per i popoli che hanno deciso di esercitare la propria sovranità».
Rodriguez ha accompagnato il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, nella sua visita in Giamaica e a Trinidad e Tobago. Un viaggio per rinsaldare l’interscambio solidale sud-sud, che il Venezuela (custode delle più grandi riserve di petrolio al mondo) intende mantenere nonostante la drastica caduta del prezzo del barile e l’opposizione delle destre.

Al Venezuela tocca la presidenza pro-tempore del Mercosur. Un compito arduo dopo il rovescio in corso in Brasile seguito a quello in Argentina, e la crisi economico-politica che attanaglia sia il paese bolivariano che l’intera America latina progressista.