«Remember è per me un lavoro sul ricordo e sul trauma. Un viaggio inatteso dove segui la sofferenza del protagonista e il suo pensiero che è solo sul presente. C’è sempre qualcosa da afferrare e che ci sfugge di Zev. Di questa incognita è impossibile prevederne gli effetti» diceva a Venezia Atom Egoyan parlando di Remember, tra i migliori del concorso (ingiustamente non premiato il meraviglioso Christopher Plummer). Una storia che come suggerisce il titolo, «Ricorda» riguarda la memoria, el caso in questione dolorosamente privata – – il protagonista è un anziano signore malato di Alzheimer – – e al tempo stesso collettiva, legata a un evento che ancora traumatizza la nostra contemporaneità quale è l’Olocausto.

Cos’è la memoria, questo bordo labile e fondante nell’esperienza personale e in quella di una società? Memoria è un sentire comune, un significato che si condivide nel vissuto, i giochi di infanzia o i dolori profondi che uniscono una generazione, degli amici, un gruppo e che permettono di «riconoscersi». Ma quando, e soprattutto come questa memoria diviene Storia? Quale è il rischio che contiene la sua volatilità?

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Remember mette al centro due vecchietti sopravvissuti ad Auschwitz e ora rinchiusi in una casa di riposo. Uno, Max (Martin Landau nascosto da barba e maschera d’ossigeno), immobilizzato su una sedia a rotelle, dopo la guerra aveva raggiunto Simon Wiesenthal lavorando con lui alla ricerca dei criminali nazisti fuggiti in America, spesso coperti da organizzazioni potenti che li aiutavano a rifarsi un volto e una nuova identità. L’altro, Zev, (Plummer), che ha appena perduto l’amata moglie è ora l’unico che può aiutarlo in quella sua caccia durata una vita. Solo lui la cui famiglia è stata sterminata come quella di Max conosce infatti il volto del comandante Ss del campo e può riuscire nell’impresa di smascherarlo. Faticosa, certo, e piena di rischi vista l’età di Zev e la condizione instabile della sua mente, anche se a aiutarlo ci sono le «istruzioni» di Max. Anche perché i due sembrano essere rimasti gli unici a condividere questi segreti rispetto al mondo fuori, i figli, i giovani.

La fragilità della vecchiaia è anche uno degli elementi su cui Egoyan costruisce la tensione narrativa del film, quasi un thriller hithcockiano e surreale di nascondimenti, fughe, escamotage di sopravvivenza in cui anche le cose più ovvie, come arrivare nella stanza dell’hotel divengono impossibili. Il viaggio si trasforma in un crescendo di suspance verso la soluzione di una «caccia all’uomo» di cui Egoyan rovescia all’improvviso nel finale le attese e le evidenze. I ruoli mutano e con essi le convenzioni che regolano questa «memoria» e la sua rimozione, un doppio salto nel vuoto che ne dimostra l’incertezza.

Zev – un nome che vuol dire ‘lupo’ – si sposta tra America e Canada, ritrova i «suoi» uomini ma nessuno è quello giusto. Uno (Ganz) ha combattuto in Africa, l’altro è morto, nella casa scassata di un sottoproletariato americano il figlio conserva i cimeli nazisti con cura più nazista del padre, e non esita a scatenare il cane contro un «ebreo del cazzo» tanto da costringerlo a sparare, – mira fin troppo perfetta per la demenza senile.

Nazisti dell’Illinois vi odio gridava il grande John Belushi, e questi nazisti «mostri» del passato l’uomo sembra scovarli ben vivi nel presente, in una realtà dalle armi facili dove alla vista di una pistola nella borsa dell’innocuo vecchietto l’agente della sicurezza con nostalgia gli dice che quella è stata anche la sua prima arma. Nella memoria invece tutto si confonde, o riemerge distorto, rimane la paura e non l’umiliazione. Tracce: Mendelssohn e Wagner, la voce innocente di una bambina riporta Zev alla sua missione, lei che non sa neppure cosa significa la parola «nazista».

Giustizia e vendetta sono temi cari al regista canadese, da Un dolce domani (’97) a The Captive (2014), o Ararat (2002) sul genocidio armeno. A cosa porta questa vendetta da anziani che si deve fare in fretta sennò muoiono tutti? Non è più efficace costruire qualcosa che sia «Storia», che trasmetta alla collettività un’esperienza piuttosto che una lettura soggettiva? Serve uccidere a distanza di settant’anni i responsabili dello sterminio? Finché all’improvviso Egoyan modifica la nostra posizione con un vertiginoso «colpo di scena», smascheramento della memoria, e della seduzione che la circonda, per mostrarcene la natura fittizia, le modalità con cui si appropria della storia. È una tensione che ha attraversato i suoi film sin dagli inizi, negli schermi moltiplicati di visioni frammentarie del mondo, e di un’impossibile oggettività, fino alle sue incursioni storiche con cui ha dato voce al genocidio degli armeni, lui stesso di origini armene come la moglie, spesso protagonista dei suoi film, Arsinée Khanjian.

Ed è qui che interroga anche la nostra posizione di spettatori ponendoci fuori dalle rassicuranti certezze, da quel presente inteso come unico parametro del pensiero e del giudizio. Una pratica sempre rischiosa oggi tanto che alla proiezione veneziana qualcuno si è arrabbiato. E invece è la forza del cinema. di questo film.