John Sturges è il John Fogerty del cinema americano. Senza mai differenziarsi dal calco del tradizionale racconto hollywoodiano, ha firmato film che sono diventati classici proverbiali. Proprio come Fogerty il quale, mentre il rock si apriva alle derive della psichedelia e della sperimentazione, scriveva canzoni che sarebbero entrate di diritto nel novero dei classici radiofonici americani e non solo. Sia Sturges che Fogerty, senza essere innovatori, anzi guardandosene bene, hanno aderito talmente al loro classicismo istintivo (o istintuale) da essere stati, a tratti, considerati paradossalmente degli innovatori.

Non è un caso che sia le canzoni di Fogerty sia i film più celebri di Sturges, proprio come le melodie e le mitologie popolari più irresistibili, hanno dimostrato un’adattabilità ben superiore al loro valore. Inevitabile, dunque, che sia Antoine Fuqua, solidissimo regista in grado di praticare i generi come se si trattasse di campionare break beat e incrociare linee di basso, a mettere mano a un remake de I magnifici 7. Antoine Fuqua, è riuscito a conservare le tracce del peccato originale della blaxploitation senza esserne segnato produttivamente, in grado di dirigere con nerbo hardcore trame esilissime infondendo loro un’eleganza felpata e cruda mai banale (si pensi a The Equalizer o Shooter) o firmare classici «minori» come Training Day o Brooklyn’s Finest, era probabilmente l’unico in grado di comprendere come ricontestualizzare il mito dei Magnifici 7.

Rilettura «berniesandersiana» del film di Sturges, più che politicamente corretta, dichiaratamente anticapitalista, integrata razzialmente, scompone gli elementi della nascita di una nazione e li offre come il segno di una possibilità (forse) definitivamente perduta. Chisolm (Denzel Washington, stiloso come un pezzo dei Cameo, anche se inevitabilmente evoca anche un po’ il Cleavon Little di Mezzogiorno e mezzo di fuoco), si fa arruolare da Emma Cullen (Haley Bennettt) per liberare la piccola cittadina mineraria di Rose Creek dalla morsa di Bartholomew Bogue (Peter Sarsgaard).

Da Akira Kurosawa a Sturges per giungere a Fuqua la strada è lunghissima. Scritto da Nic Pizzolatto di True Detective insieme a Richard Wenk (regista di Vamp), il film ovviamente non vanta né la possanza kurosawiana, né il glamour classico sturgesiano. I Magnifici 7 secondo Fuqua sono una gang adattata allo spettro policromo di una consapevolezza da strada che della mitologia della frontiera e del western non sa che farsene.

Pur rispettandone i canoni e la retorica, Fuqua utilizza il western per dare corpo a un film mutante. Un action movie genuinamente transgender, privo di nostalgie, efficace come una canzone di Rihanna, elegante come un pezzo di Puff Daddy, icastico come un verso di Jay Z, stradaiolo come una rima di Snoop Dogg. Fuqua, senza nessun complesso di inferiorità, conserva del western solo quanto gli fa comodo. A tratti il suo pare addirittura rievocare i fatti della guerra di Johnson County ma, rispetto a Mario Van Peebles e al suo Posse, Fuqua non tenta di cambiare colore al mito. Ciò che dichiara I Magnifici 7 versione 2016, è che non c’è nessun mito. Sopravvivono solo i suoi segni, ma non è un caso che Chisolm sia solo un segno (nero). Il West di Fuqua è la versione distopica del presente quasi neosegrazionista degli Stati uniti. Un West visto dalla prospettiva di Black Lives Matter. Una nazione divisa per guerre di bande. E non è un caso se i Magnifici 7 assomiglino più a una versione western degli Avengers dove ogni singolo componente possiede un superpotere che ne definisce identità e traumi.

Il principio ecumenico alla base della sua fondazione – tutti uguali di fronte al principio fondante e unificante del gruppo – nel quale il gruppo diventa metonimico della società stessa che è chiamato a difendere e rappresentare, è il medesimo messo in scena centinaia di volte da Stan Lee. Il gruppo è il segno dei «superpoteri» e viceversa. In questo scarto, dal mito alle mitologie contemporanee, si cela il senso dell’operazione di Fuqua, che va ben al di là degli evidenti limiti di una sceneggiatura a dir poco essenziale. Come dire che il mito del West(ern) è possibile solo in una «Nazione al cospetto di Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti».

In caso contrario, proprio come nella società della frammentazione e atomizzazione provocata dallo spettacolo del neoliberismo, si ritorna alle sue componenti di base, tentando di far ripartire il Grande Paese. Anche se qualche conto con i capitalisti bisognerà saldarlo prima o poi. E considerato che Donald Trump è alle porte, Antoine Fuqua con questo remake de I Magnifici 7 non poteva firmare un film più urgente e contemporaneo. Come Jay Z che campiona John Fogerty.