È possibile narrare una lotta ricostruendone l’epica e senza retorica? Quella che un tempo si sarebbe chiamata «lotta di longa durata» è l’oggetto di Un viaggio che non promettiamo breve (Einaudi, pp. 650, euro 21), narrazione ibrida di Wu Ming 1 sul movimento No Tav.
Per comprendere la polifonia della Valle di Susa, la forza che sprigiona da differenti radici («il movimento operaio, la tradizione antifascista, il cristianesimo di base, l’orgoglio di categoria dei ferrovieri») e fili rossi che hanno la capacità di intrecciarsi, il testo mette all’opera molti degli strumenti sperimentati in questi anni dal collettivo Wu Ming. È un oggetto narrativo non identificato che tiene assieme complessità e radicalità, inchiesta e narrazione, reportage e analisi. Il rigore delle fonti e la sperimentazione narrativa, per usare le parole dell’autore.

La logica dell’Alta velocità è tipica del violento paradosso di certi discorsi del potere. L’onere della prova non spetta a chi comanda. Non è richiesto a chi vorrebbe costruire la «grande opera» di dimostrarne la necessità. Al contrario, è chi vi si oppone che ha il compito di argomentare a parole e con le azioni l’inutilità della stessa per fermare la distruzione dispendiosa che la accompagna. Il movimento No Tav della Valle di Susa da anni si è sobbarcato questa fatica, riuscendo a produrre conflitto e seminare spirito critico. Il libro costruisce una grande opera collettiva che si muove tra saperi e pratiche, fatta di sudore e idee, suole per strada e testi sottolineati, trappole aggirate e terreni conquistati.

I No Tav come una trivella scavano a fondo nel senso comune, anche quando gira a vuoto in paludi semantiche. Quando entrano in scena le gabbie vere e proprie, le celle per i militanti o i recinti attorno ai cantieri, trovano il modo di portare la lotta dentro le prime o espugnare le seconde.
Il suo autore, in sintonia coi protagonisti del libro, si mette sulle spalle un carico non da poco. A partire da quello, cruciale, di farci evadere dalla logica dell’Alta Banalità, entità che serpeggia tra titoli di giornale e cenacoli letterari e che minaccia il paesaggio svuotandolo di senso.

Questo non è semplicemente il conflitto di un luogo che resiste ad un flusso. È la storia di un luogo che da sempre viene attraversato dai flussi, «senza soluzione di continuità tra locale, nazionale e planetario». È per questo, proprio perché in Valle conoscono bene i flussi, che vogliono dettarne tempi e modi di passaggio, per governarli dal basso e approntare la giusta misura della relazione con altri territori. Universale e locale, dunque. A partire dalla vexata quaestio, anch’essa a forte rischio di banalità nei discorsi correnti, delle pratiche di lotta e delle spirali repressive. All’indomani del movimento di Genova la nobile tradizione della nonviolenza venne utilizzata come clava, in maniera a volte schematica, per mortificare il vicino di corteo e produrre rotture. Si lanciavano anatemi senza proporre alternative, lasciando ai movimenti la scelta tra immobilità e testimonianza. Invece quelli che lo storico attivista (e pacifista) No Tav Alberto Perino descrive come «nonviolenti da salotto» non hanno calpestato i prati della Valle. Al contrario, Wu Ming 1 racconta come il movimento abbia saputo affrontare la questione in maniera laica, non rinunciataria e neppure nichilista, a partire dalla loro efficacia.

Per rappresentare il Male del Tav, Wu Ming 1 chiede aiuto al suo illustre collega H. P. Lovecraft. Il quale approva per via epistolare, grazie alle magiche vie di comunicazione degli scrittori, l’artificio allegorico: il Tav come un’Entità, un mostro che incombe «inevitabile, ineluttabilmente dietro ogni angolo di ogni esistenza, perché l’avvenire è scritto, cronoprogrammato». Solo che, diremmo col poeta, nel finale libro di Wu Ming 1 come nella storie della Valle ribelle «il futuro non è ancora scritto». A proposito di futuri da scrivere, bisogna precisare ancora una cosa. Questo non è esattamente un libro sui No Tav. È scritto piuttosto come un lungo excursus propedeutico. È una specie di rimessa in ordine degli appunti.

Questo espediente narrativo contribuisce alla commistione di generi e di punti di vista. Al termine l’autore scopre di avercelo davvero, questo libro che ha in mente da tempo e che è costato più di tre anni di interviste e osservazioni dirette. Scopre di averlo compiuto veramente questo viaggio tutt’altro che breve di cui ancora non conosciamo l’approdo. È un testo scritto impiegando il tempo imperfetto. Ma non è un tempo narrativo, distante. È il tempo del gioco creativo dei bambini («Facciamo che io ero un indiano») che trova solidità materiale nella declinazione imperfetta dell’azione reiterata, dell’evento che assume continuità e stabilisce un nuovo ordine.