«In ogni momento, ovunque, il reale si biforca in tutti i sensi contemporaneamente. Tutto ciò che è possibile viene a essere simultaneamente realizzato. Il virtuale e l’attuale non si distinguono più. Tutto è vero da qualche parte. E falso in ogni altro luogo». A sondare le traiettorie del reale e dell’immaginabile, ci pensa Philippe Forest che intorno alla coesistenza del vero e del falso concentra il suo ultimo libro, Le chat de Schrödinger (Gallimard 2013) tradotto da Gabriella Bosco per Del Vecchio (pp. 310, euro 15,50 – recensito su Alias il 12/10/2014).

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Romanzo e insieme originale scrittura filosofica, Il gatto di Schrödinger è una narrazione che solleva domande di un certo rilievo scientifico ed esistenziale. Nella personale ricognizione dell’assenza in relazione alla scomparsa della figlia dell’autore – morta all’età di quattro anni – vi è dunque un gatto di cui discetta il titolo. Non è un felino qualunque ma quello raccontato dallo scienziato Erwin Schrödinger, premio nobel per la fisica nel 1933, che ha inteso farne il protagonista del suo esperimento concettuale, oggi alla base della fisica quantistica. Si suppone che un gatto sia chiuso in una scatola, accanto a lui un meccanismo che può azionare un veleno. Fino a quando la scatola rimane chiusa la situazione interna al contenitore è indeterminabile, ovvero – aggiunge Forest – il gatto può essere considerato allo stesso tempo vivo e morto. Il paradosso originale che racconta di decadenza dell’atomo e questioni più strettamente inerenti la fisica, diventa nelle mani dello scrittore un’eventualità poetica e soprattutto esperienziale. Serve cioè a osservare la ricaduta che la convivenza dei contrari può avere nella vita di ciascuna e ciascuno. A partire dalla propria.

Il gatto è forma che va a smontare il principio di identità, quello di non contraddizione e infine del terzo o medio escluso, mentre la scatola è superficie liscia, segreta e indecidibile che consente alla letteratura un’esitazione dello sguardo. Tuttavia, per interrogare il baratro lasciato da una vita strappata all’infanzia, come quella della sua figlioletta Pauline, Forest inizia a misurarsi con la propria biografia, ripercorre il brancolare nel buio e la paralisi dinanzi a un’intermittente densità oscura da cui spuntano sagome «in flagrante delitto di esistenza». Dalle mani algide di Schrödinger a quelle più amorevoli di Forest, il gatto acquista consistenza di vivente. Oltrepassa la siepe dinanzi alla quale l’autore trascorre delle ore, attiva il cortocircuito tra vero e falso, sembra essere arrivato dal nulla.

In questa riflessione le categorie di spazio e tempo sono oblique, affastellano conciliaboli e memorie da un sottosuolo che pretende una ragione sufficiente. Succede invece che davanti alla perdita di una persona cara il ragionamento logico abbandoni le proprie ossessioni di verificabilità e si faccia lambire indulgente dalla letteratura, per raccontare la transitorietà del sé e del mondo.

Abbiamo incontrato Philippe Forest, ospite del Festivaletteratura di Mantova (oggi alle 14,30 insieme a Luca Scarlini presso il Palazzo Ducale – Portico del cortile d’onore) per porgergli qualche domanda.

Qual è la differenza di interrogazione del reale da parte della letteratura e della filosofia?

La filosofia – almeno se si riferisce al significato datole da Hegel – mira al sapere assoluto. La letteratura si situa invece nel crinale del non-sapere. Da qui la lunga disputa che contrappone scrittori e filosofi. Ma è una diatriba complicata in cui entrambe le parti del conflitto stringono spesso delle alleanze. Come scrittore, credo che questa sia la letteratura, perché si trova in una parte inconsapevole che, più della filosofia, dice la verità sulla realtà. Eppure, come spiegava Georges Bataille, il non-sapere presuppone il sapere, si appoggia su di esso. Questo è il motivo per cui il romanzo deve integrare in sé il discorso suggerito dalla ragione, dalla filosofia e dalla scienza, ma per mostrare qualcosa di diverso e far sentire a chi legge quale sia la vertigine che si prova a sporgersi sul vuoto della verità.

I suoi romanzi interrogano la perdita, il lutto e la distanza immedicabile a partire dall’esperienza della scomparsa di sua figlia. Anche ne «Il gatto di Schrödinger» è presente la piccola Pauline, soprattutto attraverso i vostri dialoghi notturni. Sono esperienze dalle quali forse non si torna indietro, perché capaci di trasformare tutte le nostre ulteriori percezioni del reale. È così?

Tutti i miei romanzi procedono dal primo, L’Enfant éternel (Gallimard, Tutti i bambini tranne uno, Alet 2005. N.d.r.), che racconta infatti la morte di mia figlia. Si configurano come una singola serie di libri che mi piace pensare siano ognuno la ripresa di tutti gli altri. Prendo in prestito il termine «ripresa» da Kierkegaard che si oppone al «ricordo». Attraverso il «ricordo» ci si volta verso il passato. La «ripresa» si apre invece al futuro. È proprio quello che il filosofo danese definisce «un ricordo in avanti». Questo è vero anche per Il gatto di Schrödinger che costituisce ancora il recupero di tutti i miei libri precedenti. Pertanto appare di nuovo in questo libro il ricordo di mia figlia. Ma lei ha ragione: non c’è ritorno indietro. Ciò che si perde non si ritrova mai, contrariamente a quanto scritto da Proust, anche se sono abbastanza sicuro che non ci credeva veramente. Il passato certamente esiste nel presente ma come passato.

Anche in questo suo ultimo libro lei si muove nella divaricazione tra vita e morte, con tutte le circostanze contrarie che vi abitano. Appaiono come possibilità niente affatto superflue che lei contempla dopo aver fatto i conti con l’ineluttabile, con ciò che è già accaduto e che dunque è già entrato in un regime di necessità…

Io uso un certo numero di teorie scientifiche come metafore romanzesche e poetiche. C’è la famosa storia del paradosso del gatto di Schrödinger che ha finito per prendere una direzione opposta a quella data dal suo inventore: Schrödinger infatti non ha mai pensato che un gatto potesse essere sia morto che vivo. Ha anche voluto dimostrare per assurdo che i paradossi nel mondo quantistico in cui evolvono le particelle sub-atomiche non possano essere estrapolati per il mondo in cui viviamo. Ma la storia che ha creato permette una meditazione sulla possibilità che il sogno e l’immaginazione riescono a offrire a tutti, cioè di attraversare il confine che separa la vita dalla morte, il giorno dalla notte, il sogno dalla realtà. Ci sono anche tutta una serie di altre teorie, allo stesso tempo problematiche e deliranti, che pretendono di leggere nel paradosso di Schrödinger l’equazione che prova l’esistenza dei cosiddetti «universi paralleli». Io sono scettico, ma affascinato dall’idea che la vita che viviamo avrebbe potuto essere completamente diversa nella coesistenza di versioni separate della realtà. Joyce la chiama «l’infinita possibilità del possibile» in riferimento a Ulisse. Ma troviamo lo stesso fascino in modi molto diversi di approccio alla questione, per esempio in Aristotele e Leibniz. Oppure Borges e Robbe-Grillet. Tutto questo ci porta a riconsiderare in modo molto confuso ciò che definiamo come «realtà». Questo è il ruolo della letteratura.

Lei scrive che «tutto accade come se il mondo nel quale viviamo fosse contemporaneamente lo stesso e un altro». Quel «come se», espressione usata dagli scienziati e dai bambini, le è stata utile per scrivere anche questa sua ultima storia?

«Come se» è la formula magica. Apre delle ipotesi per capire meglio il mondo ed esplora le conseguenze che possono essere in grado di agire su di esso, quindi prevedere i fenomeni e ciò da cui sono provocati. Questo è esattamente ciò che fanno gli scienziati. Ma c’è anche un altro modo, cioè quello della finzione scelto da chi scrive romanzi. Inventiamo un’altra realtà che, come sappiamo, non esiste, e nella quale agiamo come se noi la credessimo esistente. Questa è la famosa «sospensione volontaria dell’incredulità». Si possono dire molte cose filosofiche a riguardo. Ma i bambini che giocano non hanno bisogno della filosofia per sapere quello che fanno. «Come se» è simile al «Facciamo finta!» dell’Alice di Lewis Carroll.

La scatola del gatto di cui lei parla sembra simile al vaso di Pandora. Nonostante ciò, lei parte da un esperimento mentale che, come afferma, è anche una scommessa. Qual è la posta in gioco?

Al confronto con il vaso di Pandora non ci avevo pensato ma lo trovo appropriato. La scatola contiene tutti i mali, ma una volta aperta resta la speranza. In un certo senso, la storia di Schrödinger offre una straordinaria lezione della relatività, dell’incertezza e della speranza perché ci insegna che forse tutto esiste in una forma diversa da quella che conosciamo. Per me, la scatola è anche una metafora del romanzo che contiene tutte le possibili storie dell’universo – fin quando il romanzo non viene scritto, la scatola non viene aperta (o viceversa). Una grande fucina di storie, di senso e non senso, esiste per l’umanità. È inesauribile. Questo, nonostante tutto, è un motivo per riporre speranza nell’uomo, e anche un motivo per non disperare dell’umanità.