Indispettito dal persistere della dissidenza e dalle accuse di autoritarismo rivolte ai suoi disegni «riformatori», il presidente del Consiglio dà segni d’impazienza. Irride e fa del sarcasmo gratuito. È tipico di chi mal tollera le critiche, ma in questo caso c’è di più. Sta finalmente emergendo il senso delle grandi manovre in corso: la «cosa stessa» su cui si gioca la partita. Si può dire così, in estrema sintesi: viviamo (da anni) nel pieno di una crisi democratica che ora minaccia di sfociare in un regime. La formula suona estremistica, eppure è la descrizione fedele della situazione. Vediamo perché.

Da vent’anni a questa parte in Italia si opera per manomettere il rapporto di rappresentanza – essenza di una democrazia parlamentare – e per ampliare la distanza tra «paese reale» e «paese legale». In una lunga transizione (lunga ma tutto sommato rapida, considerata la portata delle trasformazioni) si è venuto modificando il sistema in senso maggioritario-bipolare al solo scopo di autonomizzare le istituzioni politiche dal terreno sociale e dai suoi conflitti. Questa è stata la bussola delle «riforme» per la «governabilità» che hanno segnato la via italiana alla post-democrazia. Era, per esempio, l’obiettivo della dottrina del «taglio delle ali», formulata, tra gli altri, da Massimo D’Alema.

La centralità (anticostituzionale) dell’esecutivo discende da qui, poiché, correlata alle sole posizioni dominanti, la prassi politica si risolve nell’applicazione del paradigma governamentale, con tutti i suoi corollari autoritari e familistici, compreso il proliferare delle logiche mafiose di appartenenza che ormai dominano ogni ambito istituzionale. La stessa corruzione dilagante è in buona misura riconducibile a questo processo. Perché l’autosufficienza incoraggia la decadenza etica delle istituzioni, e perché un ceto politico che si costituisce a valle di una brutale amputazione della rappresentanza (e che di fatto agisce come una protesi esecutiva del governo) si compone perlopiù di attori interessati a percepire cachet sempre più profumati, all’altezza del tradimento perpetrato nei confronti della democrazia repubblicana.

Questa è la storia degli ultimi vent’anni, la cui chiave di volta consiste nella distruzione dei partiti come strumenti di rappresentanza e come luoghi di alfabetizzazione politica e di partecipazione democratica di massa.

Ma questa storia – frutto anche della cronica inadeguatezza di una sinistra incapace di arginare l’offensiva reazionaria inaugurata dalla Bolognina – approda oggi a un salto di qualità. In questo senso la crisi democratica di lungo periodo minaccia seriamente di sfociare nella costruzione di un regime.

Per un verso, l’eclissi della rappresentanza si traduce nell’irresponsabilità del governo di fronte ai devastanti effetti della crisi sociale. I dati sulla povertà, la disoccupazione, l’implosione dell’apparato produttivo e del sistema formativo sono sconvolgenti. C’è materia per varare un governo di salute pubblica che subordini ogni obiettivo al varo di misure straordinarie per il rilancio dell’economia nazionale, con tanto di prelievo forzoso e massiccio sui grandi patrimoni privati per finanziare drastiche iniziative di investimento e redistribuzione. Niente di tutto questo avviene, come ben sappiamo. Il governo che doveva «cambiare verso» persevera, con un sovrappiù di populismo, nelle politiche pro-cicliche dei predecessori (precarizza, taglia la spesa, privatizza, aumenta la pressione fiscale sul lavoro) – per tacere di altre oscene continuità, e in particolare dell’oltranzismo filoatlantico e guerrafondaio. Perciò il ruolo dei media è oggi strategico, fornendo l’«informazione» – nei fatti, una rappresentazione propagandistica – un sostegno essenziale a un’azione di governo sempre più lontana da ogni base reale di legittimità.

Ma questo non significa che la politica stia con le mani in mano, al contrario. Per l’altro verso, essaopera febbrilmente sul terreno delle «riforme», impegnandosi in un processo costituente di enorme portata. Un nesso organico collega tra loro i due momenti – l’eclissi della rappresentanza e l’iniziativa «riformatrice» del governo – nel senso che le «riforme» mirano a costituzionalizzare l’assetto istituzionale più idoneo alla gestione oligarchica della dinamica economico-sociale e più capace, al tempo stesso, di proteggere il sistema politico dai rischi conseguenti alla sua autoreferenzialità.

Sarebbe difficile in questo quadro sopravvalutare la rilevanza del patto Renzi-Berlusconi. Lo si biasima, a ragione, per i suoi obbrobriosi profili etici: perché colui che in questo ventennio ha incarnato la corruzione della vita italiana ne viene innalzato a padre costituente; e perché l’accordo è di certo in qualche modo connesso alle vicissitudini giudiziarie di uno dei contraenti, serie anche dopo la sua sorprendente assoluzione milanese. Ma la sostanza resta tutta politica.

L’intesa serve in primo luogo a garantire all’iniziativa «riformatrice» una base parlamentare sufficiente (almeno sulla carta: di qui le reazioni scomposte del presidente del Consiglio al manifestarsi della dissidenza).

Ma soprattutto il patto tra i capi del Pd e di Fi riflette e cementa una convergenza di propositi antitetici all’ispirazione democratica e antifascista della Carta del ’48. L’idea piduista che accomuna i due contraenti è chiara: il partito che vince le elezioni (cioè la più forte delle minoranze politiche) deve poter prendersi tutto. Quando Berlusconi si lamenta dell’impotenza dei governi, questo intende dire. E ha nel giovane leader «democratico» un discepolo concorde e diligente.

Come le analisi di Massimo Villone mostrano in modo incontrovertibile, il progetto «riformatore» mira a smantellare il sistema costituzionale dei contrappesi: a varare un regime autocratico nel quale la maggiore delle minoranze (al netto dell’astensionismo, il 20-25% di un corpo elettorale sempre più disinformato e disorientato) possa eleggere un presidente della Repubblica trasformato in protagonista della scena politica (la politicizzazione del ruolo costituisce la più grave tra le gravissime responsabilità dell’attuale capo dello Stato) e, per questa via, controllare tanto la Consulta (e il Csm), quanto il processo di formazione delle leggi ordinarie e costituzionali.

Naturalmente quello che oggi è un accordo tra i due padroni della politica italiana è destinato a trasformarsi, una volta tagliato il traguardo della «riforma», in una competizione. Ma intanto è questo il cuore nero dell’intesa. E la ratio dell’agonia della Costituzione repubblicana, alla quale inevitabilmente assisteremo se non si riuscirà a sabotare il disegno eversivo.

A questo proposito, un’ultima considerazione. Data la gravità della minaccia, sarebbe necessaria la più vasta unità, nell’azione parlamentare, di quanti dissentono da tale progetto «riformatore», oltre che il massimo sforzo per avvertire l’opinione pubblica su quanto si nasconde dietro il pragmatismo del capo del governo. Non è questo il momento delle mezze misure.

Tutti gli oppositori delle «riforme» – dai dissidenti democratici ai grillini, da Sel ai disobbedienti di Forza Italia e ai leghisti critici – dovrebbero ottimizzare le proprie forze in parlamento per fermare il progetto renziano-berlusconiano benedetto dal presidente della Repubblica. Nella consapevolezza che la salvaguardia del sistema costituzionale non è soltanto il più importante dei beni politici comuni, ma anche la condizione necessaria per una dialettica democratica nel segno della rappresentanza reale della società.