Nel 1997, poco dopo il sisma che, anche quella volta, sconvolse la vita delle donne, degli uomini, delle valli di Appennino tra Umbria e Marche, Federico Zeri fece un viaggio tra Fabriano e Camerino seguito da una troupe televisiva a rivedere i luoghi che per decenni aveva studiato, dissodando il terreno di una cultura figurativa straordinaria e misconosciuta che solo ultimamente ha avuto occasione di essere valorizzata a dovere. Scrivere, dopo quasi vent’anni, dell’arte delle stesse zone colpite nuovamente da un sisma, è come erigere un piccolo monumento al grande studioso e andare a confrontarsi, indegnamente, con lui che queste cose le studiava spesso per primo.
Il suo metodo lo costringeva a trattare allo stesso modo pittori grandi e piccoli e lo faceva imbattere in piccoli maestri che solo grazie a lui sono stati riconosciuti nella loro reale statura. È il caso, ad esempio, di Paolo di Giovanni da Visso, pittore simbolo dell’area che oggi dobbiamo ricostruire.
Il pittore è uno dei figli più nobili di quello che Roberto Longhi chiamava «rinascimento umbratile», e fu attivo per tantissimo tempo, per quasi cinquant’anni dalla metà degli anni trenta fino al nono decennio del Quattrocento. L’esordio è a Cascia, nella propaggine meridionale della Valnerina, in cui nella chiesa di Sant’Antonio affrescò una Madonna col Bambino e un San Michele Arcangelo ancora acerbi, un po’ incerti, pieni di richiami alla tradizione salimbeniana ma con un piglio materico più pieno e una coscienza luministica più moderna e calcolata. La sua ampia parabola è avida di documenti, ma possiamo pensare con un certo grado di verosimiglianza che si sia formato nella bottega, che dovette essere grande, di Bartolomeo di Tommaso da Foligno, esempio concreto di artista viaggiatore, già allievo di Olivuccio di Ciccarello da Camerino, ma di stanza ad Ancona, e attivo a Cesena, Camerino, Norcia, Cascia, Terni e documentato pure a Roma oltre che nella sua città natale.
I modi di Paolo discendono direttamente da quelli di Bartolomeo, le linee tese delle fisionomie, gli incarnati tersi e gli occhi grandi, il disegno graffiante e quell’espressività sanguigna così identitaria, nascono proprio dalle prove del pittore folignate e restano una costante per tutto il suo percorso. Nel 1439 il pittore vissano affresca una cappella addossata alla controfacciata della chiesa di Sant’Agostino a Norcia; nelle due lunette superstiti ci sono una Crocifissione e una Conversione di san Paolo in cui lo stile graffiante è ancora edulcorato da panneggi gotici e una tensione superficiale marcata, pur con uno studio delle ombre che attesta la freschezza del pittore e le sue qualità. Qualche anno dopo lo vediamo ancora attivo nella stessa chiesa, nei pilastri interni accanto all’ingresso, dove dipinge figure di santi entro nicchie che sono ormai pienamente rinascimentali, con piedi ben saldi sui basamenti e aureole concave che dovevano essere tutte argentate. Sarà la risposta del giovane Paolo all’ormai famosa brigata del 1442, quella che a Norcia affrescava la tribuna di Sant’Agostino, la navata di Santa Scolastica e (piace pensare) anche quella di San Benedetto come una risposta quattrocentesca al modello di Assisi. È l’inizio del vero Quattrocento in Valnerina, un’impresa che non avrà lasciato indifferente Paolo da Visso.
Nel 1444, infatti, ancora a Cascia nella medesima chiesa, dipinge un sant’Agostino e santa Monica già con il cielo atmosferico, con le nuvole a degradare verso il fondo. Sono anni di forte sperimentazione in Umbria, dove, ad esempio, a Perugia era passato Domenico Venenziano e stava per schiudersi la grande stagione della pittura di Camerino di cui poi si parlerà. Paolo da Visso vive a lato degli svolgimenti principali del Quattrocento dell’Appennino, ma a quelle date è un pittore aggiornato sui testi più in voga. Negli anni cinquanta dovrebbe cadere la bella Madonna della collezione Campana ora ad Avignone, una tavola in cui il trono a trafori lignei prospettici denuncia l’incontro con Giovanni Boccati ma che trasuda ancora di eleganze salimbeniane, come fossero un corredo personale che il pittore fatica a far cadere, tanto che i girali vegetali monocromi del trono li vedremo ancora più avanti, fino alle opere estreme del penultimo decennio del secolo.
I due santi della Národní Galerie di Praga sono tra le prove più alte del pittore, allungate ed eleganti nelle forme, e dispiace che la pittura, un po’ troppo consunta da puliture energiche, non lasci più vedere le lumeggiature delle ombre che, oggi, possiamo solo intuire. A risarcire idealmente quelle figure è la paletta della Pinacoteca di Ascoli Piceno in cui il san Giacomo maggiore in primo piano a sinistra è dipinto con lo stesso disegno del Bartolomeo di Praga ed è vestito alla stessa maniera, con colori diversi, ma meglio conservati e leggibili, ricchi di quella luce che è uno tratti più caratteristici della pittura di Paolo. Le aureole proposte in questo dipinto sono ancora diverse, dischi dorati luminosissimi che sembrano fare il verso a distanza addirittura a Beato Angelico e, forse più vicino, a Benozzo Gozzoli, attivo a Montefalco a partire dal 1452. È ormai lo stile più maturo di Paolo, senz’altro il più bello e personale, e si ritrova anche negli affreschi, oggi in pericolo, della collegiata di Visso, dove sotto l’allestimento barocco, oggi superstite nelle stupende mostre d’altare, sono più pitture del figlio più importante di quella terra, una bella Assunzione della Vergine che presenta aureole in scorcio e un paesaggio ardito, una Madonna in trono e santi in controfacciata e un san Martino e il povero ancora sulla navata, in una zona di palinsesto che speriamo si possa tornare ad ammirare in un futuro non troppo remoto.
Nel 1470 Paolo dipinse il polittico per Santa Maria in Castellare, chiesa francescana di Nocelleto, nel comune di Castel Sant’Angelo sul Nera, in cui la speranza di trovare integre almeno le pareti della navata è davvero flebile, visto che il campanile, a seguito delle ultime scosse, è crollato all’interno della chiesa sfondando il tetto. La cona, bellissima anche nella conservazione, era depositata nel Museo di Sant’Agostino a Visso e dimostra un ulteriore aggiornamento, verso l’espressività dolciastra di Niccolò di Liberatore, pittore di una generazione differente e nuova, più giovane di almeno trent’anni, che sarà protagonista della grande civiltà del polittico insieme ai fratelli Crivelli e a Lorenzo d’Alessandro.
Paolo da Visso ormai è un pittore superato, ma nelle sue valli resta senz’altro la linea da seguire, tanto che ebbe una bottega florida i cui frutti si vedono in molte delle pievi e delle chiese che questo sisma ha martoriato. Una storia che un giorno speriamo sia possibile raccontare di nuovo.
La parabola di Paolo si svolge parallelamente ad uno degli episodi più entusiasmanti della pittura in Italia centrale alla metà del Quattrocento, la nascita di quella che si chiamava Scuola di Camerino. Oggi piccolo ma vigoroso centro dell’entroterra, una sorta di vetusta capitale con poco meno di settemila abitanti, un paesone sede di antica Università, di importante Arcidiocesi e oggi, nell’era della centralizzazione dei servizi, anche di un ospedale e fino a poco tempo fa di un tribunale. L’importanza di oggi deriva dalla grandezza del passato, di cui si vedono le vestigia nel palazzo Ducale di Baccio Pontelli, più volte ferito dai terremoti ma sempre poderosamente al suo posto, nella splendida Basilica dell’Annunziata, in quella di San Venanzio e nel Duomo fin troppo spazioso, tutte chiese oggi purtroppo fortemente lesionate. Camerino fu sede di signoria, i Da Varano, astuta famiglia che seppe imparentarsi con la maggior parte dei maggiorenti dell’Italia del XV secolo e che, grazie a una fitta rete mercantile, seppe arricchirsi e crescere in potere. Fu però esperienza breve e luminosissima che durò l’arco di qualche decennio fino alla fiammante ed effimera affermazione del Valentino che all’inizio del Cinquecento pose fine alla grandezza di Giulio Cesare da Varano e che segnò l’inizio del declino della sua stirpe. I pittori di Camerino, però, seppero essere grandi.
Sbaglio con alto magistero
Di nuovo Zeri fu tra i primi e più incisivi cantori di quella cultura, a partire dagli studi sull’allora denominato Carlo da Camerino – che in realtà è Olivuccio di Ciccarello, il quale camerte lo fu solo di nascita, visto che lavorò in sostanza sempre ad Ancona – fino ad Arcangelo di Cola e alla pittura del Rinascimento. A questa dedicò un libretto di bellezza straordinaria, Due dipinti, la filologia e un nome, dove con un’emozionante lezione di metodo attribuì le famose tavole Barberini – oggi «ancorate» alla figura di Fra Carnevale – a Giovanni Angelo d’Antonio, allora fantomatico pittore di Camerino documentato, tra l’altro, alla corte dei Medici. Zeri sbagliò, è vero, ma l’altissimo magistero dello studioso propone in quelle pagine una lettura intelligentissima e lucida, tanto che l’impianto generale della ricerca rimane valido.
Proprio dalle macerie meno pesanti e meno numerose del sisma del 1997 nacque una campagna di studi magistrale che portò, cinque anni dopo, alla mostra Il Quattrocento a Camerino. Luce e prospettiva nel cuore della Marca, che presentava, sotto la regia di Andrea De Marchi, una rassegna stupenda di tutti i pittori attivi in questa zona dell’Appennino.
Le rotte mercantili erano seguite anche dagli artisti, così Giovanni Boccati è a Padova già negli anni trenta e, dopo un possibile passaggio nella bottega di Filippo Lippi a Firenze, si trova alla metà del secolo successivo a Perugia, dove dipinge la bella Madonna del Pergolato. In lui convergono richiami superficiali all’Angelico, la chiarità della pittura fiorentina e le costruzioni ardite della cappella degli Ovetari a Padova, un pedigree che lo pone ai vertici dell’arte in questa fetta d’Italia. Poi c’è Girolamo di Giovanni, un pittore sostenuto ma meno bello di quello che si pensava: in sostanza si identifica con colui che veniva chiamato negli studi Maestro delle Macchie, dal luogo di origine di alcuni affreschi strappati (e ora al Diocesano di Camerino), un piccolo eremo di montagna la cui chiesetta trecentesca di affreschi è tutta foderata: vi si respira tutt’oggi l’aria di questo Rinascimento nascosto ma forte come la gente della Marca.
Sulla stampa abbiamo seguito tutti il salvataggio della superba Annunciazione di Spermento, depositata oggi in luogo sicuro dopo che la forza della terra ha fatto crollare parte della muratura della Pinacoteca Civica di Camerino, allestita nelle bellissime sale del Convento di San Domenico. La tavola è forse il monumento più emozionante dell’intera pittura marchigiana del XV secolo. Giovanni Angelo d’Antonio, finalmente riconosciuto nella sua reale fisionomia artistica, riesce a costruire un’immagine che sostanzialmente è il manifesto della pittura camerte di quel momento. L’Arcangelo Gabriele, pieno di rotondità alla Filippo Lippi, è atterrato in mezzo a una via di una città che corre in prospettiva verso il fondo; la Madonna è còlta all’interno di un locale che somiglia in maniera significativa al tempietto delle Muse in Palazzo Ducale ad Urbino,: è inginocchiata e intenta a leggere, circondata da libri e oggetti descritti con attenzione lenticolare, quasi nei modi di un pittore fiammingo. Sopra, nella lunetta, la figura di Cristo si erge scultorea al centro, seduto già morto al bordo del sarcofago con la Vergine e Giovanni Evangelista piangenti ai lati. In primissimo piano, san Francesco e sant’Antonio da Padova in scorcio di sotto in su danno il trampolino per entrare nello spazio ideale della cimasa, un’idea che non può prescindere dalla cultura prospettica di Padova e del giovane Andrea Mantegna. Ad assistere alla scena sono i committenti, in cui l’uomo si riconosce proprio con Giulio Cesare da Varano.
Un Rinascimento alto e luminoso, pieno di rimandi ai maggiori artisti del tempo, compresi Piero della Francesca e Donatello, Angelico e, appunto, Mantegna.
Con la morte di Boccati e di Giovanni Angelo i pittori di Camerino segnano il passo come tutta la grande arte marchigiana del Quattrocento. Negli anni ottanta il cantiere di Loreto apre a un mondo tutto diverso, figlio della Sistina, in cui compaiono Luca Signorelli e Melozzo da Forlì. Il passo verso il Cinquecento è ormai stato fatto e pochissimi sono i maestri locali che riescono a reagire a queste novità. Nelle Marche arrivano pittori forestieri, esse si popolano di una cultura fieramente anticlassica, legata alle lucentezze forlivesi di Palmezzano, alla struttura neo-belliniana di Solario e, soprattutto, alla presenza di Cola dell’Amatrice.
Il modello delle Stanze vaticane
La parabola di Cola forse parte lontano dalla sua città di origine, a Farfa e Subiaco, dove si trovano affreschi e tavole giovanili che dichiarano il passaggio nella bottega di Antoniazzo Romano o quanto meno il debito verso la cultura figurativa della Roma dei Borgia. Nel 1509 Cola dell’Amatrice è documentato ad Ascoli e poi, nel 1512, di nuovo a Roma alla corte del Cardinal Riario, in contatto con Jacopo Ripanda e in qualche modo legato ai grandi cantieri vaticani. Senza le Stanze di Raffaello e i vorticosi virtuosismi della sala di Eliodoro non sarebbe potuto esistere il grande polittico di Force, una macchina complessa ora smembrata ma che un’operazione esemplare ha permesso di reintegrare in parte (e la parte riguarda la zona principale dell’opera) nei Musei Vaticani: così il centro con la Dormitio Virginis è stato riunito alle tabelle laterali dell’ordine inferiore.
Cola dell’Amatrice usa una pittura smaltata, con figure pesanti e metalliche, associate nello spazio come a intarsi, in una costruzione paratattica e cadenzata, mai ingenua. È proprio il mondo dell’anticlassicismo di Ripanda e di Aspertini, di Pedro Fernandez e di Iohannes Hispanus, esattamente come aveva intuito con la solita lucidità ancora una volta Federico Zeri, che cantava la grandezza di Cola dell’Amatrice e avrebbe forse apprezzato gli studi sul Cinquecento nelle Marche degli ultimi dieci anni, con i quali il pittore di Amatrice è stato posto al centro della scena, capace di influenzare e anzi, di dirigere, una lunga schiera di artisti delicati e sorprendenti come Lorenzo di Giovanni de Carris, detto il Giuda da Matelica, o Francesco Fantone da Norcia. Nomi e luoghi che oggi evocano un territorio ricco di emergenze ancora da scoprire fino in fondo e che chiede di essere salvato.