Una sottovalutazione che rischia di essere pagata cara. Carissima. Che farà vincere le major, i grandi editori. E a perdere saranno tutti gli «altri». Si parla di copyright, della brutta ipotesi di riforma che è già in fase avanzata, anche se pochi sembrano essersene accorti. È successo infatti che un sito – IPKat – sia riuscito a rendere pubblica la «bozza» preparata dal commissario europeo Oettinger per la «modernizzazione del copyright». Inutile cercare lì i suggerimenti della lunga consultazione on line, avviata mesi fa. Nella bozza c’è esattamente il contrario di quanto proposto dagli attivisti. C’è solo quanto «preteso» dai detentori del «tutti i diritti riservati».

Il silenzio 2.0

La prima, la più drammatica misura pensata da Oettinger già la chiamano la «tassa sui link». Sui link d’informazione. Tradotto: se la bozza diventasse direttiva non sarebbe più possibile per un utente linkare un articolo. Non sarebbe più possibile criticarlo, smentirlo. Non sarebbe più neanche possibile citare fra virgolette poche riga di quel testo. A meno che non ci sia l’autorizzazione del titolare dei diritti, l’editore. Che con ogni probabilità vorrà essere pagato.
Misura che contiene anche alcuni aspetti grotteschi. Perché la protezione del copyright durerebbe vent’anni. E sarebbe retroattiva. Così, su Facebook, – senza autorizzazione – non si potrebbe più commentare un editoriale del Corriere del ’96. Il silenzio 2.0.

È una misura voluta, imposta dagli editori. Come se la crisi delle testate non dipendesse dalla loro mancata autorevolezza. Crisi dalla quale pensano di uscire con una tassa sul link. Facendola pagare agli utenti.
Più o meno la stessa filosofia ispira le misure a difesa del copyright per la musica, il cinema. La cultura. D’ora in poi, se il progetto andasse in porto, i siti che ospitano contenuti dovranno «preventivamente» accertarsi che il materiale caricato degli utenti non violi il copyright. Misure in qualche modo tecnicamente possibili, sia chiaro, tant’è che YouTube – guarda caso – in qualche modo già le adotta (Content ID). Si parla di programmi di filtraggio preventivo che costano però centinaia di migliaia di euro. Senza contare il costo della gestione. Spaventoso. Misure, insomma, che possono permettersi solo YouTube o FaceBook. Nessun altro. Fine del mercato, allora, in questo settore. Monopolio assoluto, scomparsa dei piccoli content providers indipendenti.

La bozza contiene tante altre cose ma quello del mercato che si restringe è un tema centrale. Forse anche troppo. In questo senso: a denunciare i rischi connessi alla bozza, fino ad ora è stata lasciata quasi da sola Julia Reda, l’eurodeputata tedesca del partito pirata. Con un attivismo che non si vedeva da tempo. Ha lanciato una campagna che però parte dal suo angolo di visuale, parte dalla cultura del partito pirata tedesco. Dalla sua idea di mercato sociale (e che probabilmente è stata la ragione della velocissima scomparsa dei pirati tedeschi). La denuncia, insomma, si gioca tutta sui drammatici danni che subirebbero l’economia dell’innovazione e le start-up. Condita con un richiamo all’Europa dei dinosauri, contrapposta alla cultura dei giovani.

Retorica da start-up

Elementi reali, che forse sono in grado di mobilitare settori dell’opinione pubblica. Ma le dimensioni del problema sono molto più ampie. Rimandano a principi di libertà, riguardano il diritto alla condivisione della cultura, dei saperi. E non riguardano solo le regole di «un giusto mercato». Riguardano dati macroeconomici, riguardano il progetto di spostare verso un’inedita alleanza fra il net liberismo (per usare la definizione di Giuliano Santoro) e i vecchi monopoli dell’informazione, quote enormi di ricchezza.

Ridisegnando gli equilibri fra potentati. In Europa e nel mondo. Il tutto accompagnato dall’esproprio del diritto alla conoscenza, quello che poi magari formalmente viene riconosciuto nelle tante, inutili, Bill of Rights. E allora il problema dei proletari della conoscenza – come diventeremo tutti – non può essere delegato solo alla difesa delle startup. Rimanda ad una ridefinizione dei diritti che sollecita, che parla alla sinistra.
Ma la sinistra non c’è. Neanche stavolta. Mi è capitato spesso di citare una ricerca, condotta dalla Columbia, che rivela come non ci sia differenza sul tema fra gli elettori di sinistra e di destra. Gli elettori democratici americani e quelli repubblicani, esattamente come gli elettori socialdemocratici tedeschi o quelli della Cdu, pensano sia giusto «reprimere» chi prova a condividere i saperi. Intervistati, con le stesse percentuali (70 %) rispondono che preferiscono poter disporre di meno cultura e più controlli, basta che sia colpita la condivisione, che nella loro testa è la pirateria.
È il risultato di anni di silenzio, di laissez faire, di non intervento. Di delega all’elaborazione su questi argomenti ad un ristretto gruppo di artisti e registi, magari anche prestigiosi, ma che col copyright raccolgono ancora qualche piccolo obolo. E invece su questa battaglia – a proposito: battaglia che o è europea o non è – si gioca la possibiltà di definire una nuova sinistra. Radicale, molto radicale, perché gli interessi sono giganteschi. Spaventosamente grandi. Si gioca la possibilità di costruire una sinistra che deve essere anche un po’ pirata (diciamo come i primi pirati). O è no-copyright o non sarà. E il commissario presenterà il suo progetto definitivo a giorni.