La leggenda narra che nel 1386 fu il diavolo in persona a comparire in sogno a Gian Galeazzo Visconti per intimargli di costruire un luogo maestoso. E fu così che il signore di Milano si affrettò a dare inizio ai lavori del Duomo, la cui realizzazione durò oltre cinque secoli, intrecciandosi alla storia d’Italia, e ancora oggi – attraverso la Veneranda fabbrica del Duomo – richiede il lavoro di decine di persone tra restauratori, carpentieri, scultori, archivisti. Un lavoro minuziosamente osservato da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti in L’infinita fabbrica del Duomo, in concorso al Filmmaker Film Festival che si apre stasera a Milano. Come già declamava in F for Fake Orson Welles a proposito della cattedrale di Chartres, siamo di fronte a una delle più grandi opere della civiltà occidentale, che non ha però alcuna firma: «gloria anonima, ricca foresta di pietre che scegliamo, quando tutte le nostre città sono ridotte in cenere, per restare intatta e segnare dove siamo arrivati». L’anonimato che caratterizza la vasta e varia umanità che ha contribuito all’edificazione del Duomo è reso nel documentario dall’attenzione per i particolari – del lavoro manuale, di quello d’archivio, delle nicchie e anfratti della cattedrale stessa – senza quasi mai mostrare i volti di chi effettivamente svolge questi compiti, ma concentrando piuttosto sul ripetersi infinito del gesto stesso.
Tra le prime inquadrature del film c’è un olmo che ha la stessa età della cattedrale milanese, ed è nato appena sotto la cava di marmo rosa da cui sono stati prelevati i 350.000 blocchi che l’hanno composta. E la stretta connessione tra l’uomo, il suo operato e la natura è una dei temi che indaga L’infinita fabbrica del Duomo. «Le conchiglie sono cattedrali», recita infatti una delle didascalie del film: ci sono voluti diecimila anni per trasformare un deposito di conchiglie in una vena di marmo rosa, e allo stesso modo il lavoro intorno a ciò che sono andate a creare è potenzialmente senza fine.
L’infinita fabbrica è parte di un lavoro in progress di D’Anolfi e Parenti – Spira mirabilis – che affronta i quattro elementi della natura «legati da una tensione verso l’immortalità – dice D’Anolfi – in cui la fabbrica del Duomo è l’elemento della terra».

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Quali sono gli altri?

D’Anolfi: L’acqua sarà la storia dello scienziato Shin Kubota e dei suoi studi su una medusa potenzialmente immortale. Inverte infatti il suo ciclo vitale e invece che invecchiare «degenera» e rinasce. L’elemento dell’aria è rappresentato da Felix e Sabina, due musicisti svizzeri che hanno inventato uno strumento musicale che suona grazie alle risonanze dell’aria. Infine il fuoco è espresso da una comunità di indiani Lakota in America, in cui seguiamo Leola, una donna sacra, e due fratelli. L’epilogo e il prologo riguardano invece l’etere, e vedranno una grande attrice recitare L’immortale di Borges.
Parenti: L’infinita fabbrica ha in sé il tema della tensione verso l’infinito, ma non riflette tanto sull’immortalità quanto sul tempo, la relatività delle cose, l’espressione migliore dell’agire dell’uomo.

Il rapporto tra uomo e natura è un tema ricorrente dei vostri lavori.

D’Anolfi: Nel caso del Duomo abbiamo trovato interessante l’idea che sia stato realizzato con le più alte intenzioni, ma a partire comunque da un atto di violenza nei confronti della natura. L’estrazione del marmo, della materia prima dalla montagna è un gesto violento: il taglio di queste vene marmoree è il primo segno di una perdita di innocenza. L’opera dell’uomo ha sempre e comunque a che fare con qualcosa di brutale.

28vissinFOTOREGISTIMassimo D'Anolfi e Martina Parenti

Non è però la stessa violenza sulla natura che raccontate in «Materia oscura» (il loro precedente documentario sul Poligono militare di Quirra, in Sardegna, nda) 

D’Anolfi: È una violenza di natura assolutamente diversa, ma è comunque un tema che ritorna nei nostri film e caratterizza il rapporto tra uomo e l’ambiente che lo circonda. In Materia oscura siamo davanti a una brutalità stupida e ottusa, mentre in L’infinita fabbrica è quasi connaturata all’azione umana nel momento in cui si rapporta con la natura; c’è sempre una sorta di sentimento di appropriazione, anche quando si vogliono fare cose buone.

In comune entrambi i film hanno anche la scelta di non inserire nessuna forma di voce narrante. Anche se qui ci sono dei testi usati come didascalie.

Parenti: Sarebbe stato difficile attribuire la voce narrante a una persona, dato che il film punta proprio sul fatto che nessuno è protagonista di questa esperienza. I testi sono quelli dell’archivio della fabbrica – dove sono conservate tutte le storie, le favole e le leggende popolari intorno al Duomo – poi rielaborati, filtrati, resi letterari.
D’Anolfi: È l’esistenza stessa di questi documenti che ci ha spinti a portare nel film l’elemento della scrittura.

Il Duomo di Milano vi consente anche di attraversare la storia italiana dal Trecento a oggi.

D’Anolfi: Tra l’altro una storia italiana particolare, perché il periodo tra l’inizio e la fine della costruzione coincide con la maggior espansione della civiltà che ha dominato il mondo, che invece dal Novecento ha iniziato a perdere un po’ di smalto. In questo senso la costruzione delle grandi cattedrali è simbolica: tendono verso l’alto e segnano sia l’apice che la decadenza della cultura occidentale europea.